«Se qualcuno leggerà queste lettere e si meraviglierà delle lodi dei perseguitati al persecutore, smetta di leggerle. Tenga piuttosto a mente il coraggio» di esporsi da parte di uomini e donne «cui si imponeva il tu-non-esisti». Lo scrive Paola Frandini nella premessa al suo ultimo lavoro, Ebreo, tu non esisti! Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini, edito da Manni con una prefazione di Alain Elkann. La Frandini, autrice di numerosi saggi e traduttrice di grandi autori inglesi, raccoglie con ammirevole precisione bibliografica più di novanta lettere scritte da ebrei italiani fra il settembre del 1938 e il 1939, all’indomani della promulgazione delle Leggi in difesa della razza, quando di colpo i circa quarantamila italiani di origine ebraica si trovarono di fatto privati dei diritti civili, impossibilitati a svolgere qualsiasi lavoro, a frequentare scuole, università. Quelle leggi fasciste rappresentarono il primo passo verso la d deportazione, lo sterminio, nel migliore dei casi l’esilio. L’ingenuo esercizio retorico con il quale medici, commercianti, insegnanti, ma anche casalinghe o venditori ambulanti esprimono stupore, delusione e si appellano al duce per essere «discriminati» da quelle nefande leggi può lasciare sbalorditi. Ognuno cerca di rientrare nelle clausole che consentivano, per particolari meriti verso il regime o la patria, di essere appunto «discriminati», ovvero posti fuori dalle assolute restrizioni previste dal Regime. Con la precisione burocratica del fascismo ogni lettera viene catalogata e poi esaminata dal duce in persona, che segna con la matita rossa o blu il destino del postulante e sigla ogni missiva con una M. Starà al suo segretario personale, Osvaldo Sebastiani, rispondere, quasi sempre con l’ambigua formula «Potete stare tranquillo». Il che equivaleva a dire che la supplica non era stata accettata, ma lasciava il postulante in uno stato d’animo meno disperato e pronto alla rivolta. Perché, come rileva Paola Frandini, a scrivere al duce, o a sua moglie Rachele, o addirittura alla regina, erano «i più arditi o i più disperati». Che fino al 1938 moltissimi ebrei fossero fascisti convinti non è un mistero. Alain Elkann nella prefazione ricorda che nel suo romanzo Piazza Carignano è narrata la vicenda vera di un ebreo fascista rimasto tale anche con l’avvento delle leggi razziali, e che dopo l’8 settembre finirà trucidato dai repubblichini insieme a tutta la sua famiglia. Erano pazzi, stupidi, gli ebrei italiani? Non più di quanto lo fossero i tedeschi che seguirono Hitler o gli italiani stregati da Mussolini o i russi fedelissimi a Stalin. Non più di quanto lo siano stati tutti coloro che hanno affidato a un leader le loro paure, le loro incertezze, la mancanza di una precisa identità individuale e collettiva. Non più di quanto lo siano stati quegli americani che plaudivano alla guerra nel Vietnam o a quella in Iraq. Non mancano alcune lettere che rappresentano veri e propri atti di eroismo, come quella del tenente Valfredo Segre, che scrive al duce solo per rassegnare seccamente le dimissioni e riconsegnare medaglie e gradi. Valfredo Segre, che emigrerà negli Usa, ci consegna una rara lezione di umana dignità, così come una non ebrea che cita a Mussolini la minaccia di Padre Cristoforo a Don Rodrigo «Verrà un giorno...». Il libro ha il sapore dell’Antologia di Spoon River, della collina sulla quale Masters fa dormire per sempre gente qualunque, non-eroi per definizione che hanno vissuto come hanno potuto. Degli autori di queste disperate lettere qualcuno è riuscito a riparare all’estero, qualcuno è stato trucidato, altri si sono suicidati. Pochissimi, quasi solo i più ricchi e influenti, sono riusciti a essere «discriminati» dalla legge italiana più discriminatoria che sia mai esistita, ma si sa, a volte le parole giocano con gli uomini e con il loro destino. Servono, però, quando rimangono scritte, come in queste lettere, a testimoniare la lucida e criminale follia dei carnefici e la disperata fragilità delle singole vittime di fronte all’orrore del mondo.