Paola Frandini, Ebreo, tu non esisti!

30-11-2007

Libri ricevuti, di Alberto Cavaglion

Il libro raccoglie un corpus di novanta lettere, firmate e anonime, conservate nell’Archivio Centrale della Stato. Dell’esistenza di questo fondo archivistico s’immaginava l’esistenza, ma se non lo si è fino ad oggi cercato o se n’è parlato poco è perché la nostra ricostruzione del rapporto ebrei-fascismo è sempre stata falsata da un’immagine stereotipata e unilaterale, secondo cui nella storia d’Italia ebraismo e fascismo sarebbero corpi separati, due entità da tenere distinte. La prima –l’ebraismo- rigorosamente sottomessa, refrattaria a confondersi con il sistema di potere consolidatosi dopo il 1922. In realtà non ha senso parlare di una storia degli ebrei «sotto» il fascismo, ma «nel» fascismo. Anche dopo l’emanazione delle leggi razziali fu pertanto assai difficile prendere atto della situazione e cancellare in un solo istante una storia che era durata più di quindici anni. Da questo punto di vista il contenuto di tale corrispondenze e suppliche non meraviglia. Queste lettere documentano sgomento, incredulità ma anche cieca fiducia nella generosità d’animo del duce. Vanno analizzate senza moralismo anacronistico, ma con la pietas necessaria a capire che cosa ci fosse dietro tanta incredulità. Un sentimento che sfiora la ingenuità, la rinuncia ad aprire gli occhi pur davanti all’evidenza dei fatti. Dirsi scandalizzati davanti a tali documenti sarebbe sbagliato. Se rileggiamo questa corrispondenza senza acrimonia o spirito settario riusciremo a capire due fondamentali cose. Innanzitutto quanto sia stato profondo il legame sociale, culturale e politico degli ebrei rispetto al regime fascista; in secondo luogo riusciamo a comprendere come il cinismo e non fanatismo sia stato l’ingrediente principale dell’antisemitismo mussoliniano. Il cinismo e il fanatismo ideologico sono orribili entrambi, ma non sono la stessa cosa. Il lavoro ammirevole di Paola Frandini ci aiuta a mettere meglio a fuoco questi fondamentali problemi. Le lettere sono annotate dall’autrice con grande scrupolo e precisione. Il solo difetto sembra sia da ravvisarsi nel titolo, che non rende giustizia dei suoi meriti principali. Forse il titolo esatto avrebbe potuto essere la ricorrente, ossessiva formula di risposta, aggiunta a margine di queste lettere dai funzionari ministeriali su indicazione del duce: «Potete stare tranquillo», «Stare tranquillo». Una espressione quasi rituale, simile a quell’aggettivo «libero» (il «libero» esercizio del culto) inserito nel Manifesto della razza. Se si volesse trovare il modo ideale per definire il cinismo fascista di fronte alla questione ebraica la strada giusta sarebbe proprio quella di smascherare l’ipocrisia di queste raccomandazioni ipocritamente rassicuranti.