Paola Santucci, Interno 12

01-08-2010

La vita in versi, di Roberto Bianco 

È nelle librerie italiane il libro di poesie di Paola Santucci Interno 12. l’autrice, già professore ordinario di Storia dell’arte moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Federico II, è a un felice esordio.
Pubblicata nella prestigiosa collana pretesti, che annovera autori del calibro di Edoardo Sanguineti, Alda Merini, Franco Fortini, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone, la raccolta è divisa in quattro sezioni, strettamente correlate tra loro (Interno 12, nucleo centrale del libro, Lo stato delle cose, Ombre, A Sylvia Plath) sul tema centrale del mancato rapporto con l’altro, compagno, padre, madre, fratello. Non è, tuttavia, poesia autoreferenziale, poiché temi come l’amore e la morte toccano il lettore in prima persona.
Concepita in forma di monologo, parallelo alla celebre telefonata interpretata da Anna Magnani in L’amore di Roberto Rossellini, ispirato a La voix humaine di Jean Cocteau, la raccolta se ne distacca sul piano di un’intimità introversa, espressa in un dialogo mai esplicitato con l’altro: mentre la disperazione è dichiarata nell’indimenticabile monologo/dialogo dell’attrice romana, in Interno 12 l’altro non c’è, non dà risposte, nonostante la premessa d’amore.
Tra i versi che aprono il libro, nella prima sezione, troviamo una dichiarazione cosciente del sacrificio di un trasporto non corrisposto, di cui si desidera, comunque, la caduta, il gorgo: “Così io ti confesso la mia paura / vocaboli spersi in un’integrità / che non possiedo, s’allontana. / Con te vicino, terra molle / sdrucciolevole cado / presentimento di ciò che sarei / potrei essere non sono / in questa primavera oltraggiosa / nel suo fiorire di ciliegi. / Io resto viandante nuda, estraniata / in mattanza di me stessa. / Questo il mio sacrificio: conoscerti”.
La successiva, dolente riflessione non può che avere la conseguenza di uno stato di fatto: “Dovessi dirti qualcosa di preciso / dovrei parlarti del mio dolore / di un io ricurvo contro sé stesso. / Ma dovrei attendere la tua domanda / inconsciamente priva di barriere / quel tu disonorato negli anni che / abbiamo trascorso su sponde diverse / senza pietre traverse per il guado”.
Se il vuoto d’amore (per dirla col titolo di un celebre libro di versi di Alda Merini pubblicato nella serie “bianca” della Einaudi) diventa l’essenza stessa del vivere quotidiano, lo sguardo allora si sposta ai dettagli di quel vivere, sentito come lo scorrere del tempo tra un’alpha ed un omega – l’inizio e la fine – racchiuso in un’ora: “Accendo i dettagli / decanto la loro sostanza / ne piego i risvolti / con cura di madre / per farne pane con gli amici. / Me ne affamo / li scompongo in poliedri di vetro / per farne diamanti / di voci narranti. / Li riavvolgo / li scruto alla distanza. // Il tempo è un’ora tra due estremi”. L’amarezza si rovescia poi nel bicchiere dell’ironia, perché l’anamnesi scorre in fondo alla bottiglia, come scrive l’autrice: “mi confondo tra i cuscini / esco fuori di me / c’è un video di Travaglio / su You Tube. Provo a seguirlo. // (Di sera il Solopaca mi fa bene)”.
Si avverte l’eco di un Quasimodo non ermetico nei versi conclusivi di un’altra poesia che sanzionano la fine vera del rapporto indagato: “Una candela illumina traverse rughe / solca e sfiamma agli angoli del viso / dice l’arco di un tempo e le sue fughe. / Noi siamo bianchi già lustri di cera / e il tempo, il nostro tempo è sera”.
Di qui quella “perfetta assenza” che è il sintomo di una vita quotidiana, feriale, racchiusa nell’ascolto delle “voci del palazzo” di un condominio qualsiasi, in una qualsiasi città: “Quel momento sospeso / tra il sonno che si dilegua / e l’alba che s’alza / è la perfetta assenza. // Tagliano le parole / il giorno quotidiano”. Le radici di questa vicenda solipsistica sono lontane, generate nel ceppo di una famiglia del dopoguerra, in cui assume funzione centrale la figura materna, bellezza di casa prorompente di leggerezza, canto e orgoglio di cucina, eppure altrettanto vuota d’amore in nome del rispetto dei valori formali di una media borghesia che non prende atto della complessità e della dimensione di un passaggio storico che dimensiona la figlia nella crescita di un consapevole distacco di culture, di visione critica di un mondo sempre più articolato, ma che non elude il desiderio ella ricucitura di un’antica ferita affettiva: “Pensavo di telefonarti poco fa / immaginavo di dirti come stai? / Sapevo della tua scontata risposta / ferma nell’ingranaggio consunto / del nostro formale quotidiano. / Saluti a casa mi avresti detto / chiudendo in fretta una richiesta d’amore”.
La memoria trova allora la sua ragione di essere nella rievocazione della bellezza di un passato non consunto dalla incomunicabilità imposta dalla modernità dei tempi; è il tentativo di recupero di una semplicità ormai periferica, d’infanzia, che agisce da compensazione: “Poco più di un chiodo / la memoria di te / in questa controra. / Quel rintocco lontano di campana / evoca fantasmi, i miei passi di bambina / chiamata a pranzo e la famiglia / riunita attorno al tavolo / che a stento sfioravo con la fronte / le orecchie fatte più grandi / per ascoltare i grandi. / E tu eri piccola anche per me / ma sovrana maestra di conduzione / di un paradiso grembiale da cucina”. The Lost Paradise, dunque, che riaffiora quando non c’è più tempo.
L’ultima sezione, A Sylvia Plath, la poetessa statunitense moglie di Ted Hugues morta suicida l’11 febbraio del 1963, ritrova la propria identità ancora in una mancanza: il rapporto vissuto dalla Plath col padre, da lei chiamato “il Colosso”. Rapporto di perfetta assenza anch’esso, negazione di quell’altra metà del cielo che è un padre per la figlia. E la rievocazione poetica dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters fa d sfondo alle parole lapidarie con cui la Santucci, interpretando la Plath, commenta il proprio suicidio: “Non sapevo, padre, non sapevo / che ai tuoi occhi impietriti / il mio gesto si sarebbe dissolto / come l’aria di colline distanti / che neanche il sorriso di Frieda / avrebbe fermato la corsa catramosa / verso il buio delitto di me stessa”.
Sorge spontaneo domandarsi se le due poesie successive, comprese nell’ultima sezione e dedicate anch’esse ad un padre, non siano in realtà una confessione indiretta di un dolore vissuto in prima persona dall’autrice laddove l’incompiutezza di quel rapporto padre/figlia induce la Plath a dire: “Ho cercato di diventare costellazione / senza il tuo aiuto, padre negato / combattendo il mostro / fatto d’inganno, attesa, delusione / poiché cercavo di compiacerti con / dovere, intelligenza, amore / per iniarmi in te affinché / non distratto fosse il tuo guardarmi. / Ma tu m’incatenasti allo scoglio / per esporre il mio peccato: / pensare di essere bella agli occhi tuoi / per gratuito amore e non per dovere. / Mi negai ai piaceri di ragazza? / tu mi osservavi? / mi negasti le carezze / per sbarrarmi il tuo tempio. / Affondai nella terra / le radici e diventai / siepe di me stessa”.
Cognizione del dolore, dunque, unita alla colta sapienza della tradizione poetica del migliore Novecento italiano – espressa nell’uso delle assonanze, allitterazione e enjambements che percorrono la coltivata struttura delle poesie – fanno di Interno 12 un libro da leggere, senza riserve se si è capaci di confrontarsi con l’intimità di un dialogo interiore ricco, complesso, vis