Paolo Valera, L'assassinio Notarbartolo

26-10-2006

Apologia del sicilianismo, di Marilena Renda

È l’alba del primo febbraio 1893: sul vagone di prima classe diretta da Termini Imerese a Trabia viaggia Emanuele Notarbartolo, appartenente a una delle famiglie più facoltose dell’isola, ex-sindaco di Palermo, ex-direttore del Banco di Sicilia, uomo di specchiata onestà. Prima di arrivare a Palermo, il treno è teatro di uno dei delitti più efferati ed eclatanti della storia della mafia, la cui eco, data la rilevanza dei personaggi coinvolti, nella fattispecie Notarbartolo, la vittima, e Raffaele Palizzolo, deputato del Regno, indicato da più parti il mandante del delitto, oltrepassa lo Stretto, ponendo all’attenzione della neonata opinione pubblica nazionale la «questione mafiosa». Questione su cui infuriarono le polemiche, se è vero che intellettuali dell’epoca, campioni dell’aristocrazia e della borghesia imprenditoriale, dopo la condanna in primo grado dell’onorevole Palizzolo, levarono gli scudi per difendere l’onorabilità dell’isola nonché per sostenere l’inconsistenza del fenomeno mafioso, ottenendo infatti una rapida assoluzione dello stesso per insufficienza di prove, nel 1904. Un’assoluzione con cui venne liquidata definitivamente ogni speranza di fare giustizia sull’assassinio e chiarezza sul torbido sistema di potere e di oscure connivenze che, già allora, intrecciava apparato politico e idra malavitosa.
Era con tutta evidenza una Sicilia ancora impreparata a riconoscere la reale entità del problema, se fu proprio un intellettuale lombardo, Paolo Valera, a svolgere una dettagliatissima inchiesta sull’omicidio Notarbartolo, parte del cui materiale confluì nel romanzo-inchiesta L’assassinio Notarbartolo o le gesta della mafia, pubblicato per la prima volta nel 1899 e finalmente ripubblicato da Manni per le cure di Michela Sacco Messineo con una prefazione di Matteo Di Gesù. Di Paolo Valera, giornalista, romanziere (il suo romanzo più celebre è lo splendido La folla), uomo di teatro, attivista politico, traduttore, autore di inchieste, saggista storico e politico (il libro Mussolini gli valse nel ’24 l’espulsione dal Partito socialista, rispetto al quale era stato peraltro sempre ai margini per via delle sue posizioni massimaliste e le sue simpatie anarchiche), si può dire che è uno di quegli scrittori ingiustamente dimenticati la cui riproposta fa giustizia del silenzio in cui fu avvolto L’assassinio Notarbartolo già pochi anni dopo la sua pubblicazione. Trascurato da un’udienza nazionale a cui Valera si rivolgeva con l’attenzione primaria di scuotere le coscienze e denunciare, con un’assunzione di responsabilità forte propria dello scrittore e giornalista militante nelle vicende più brucianti del proprio presente, le ingiustizie, le ipocrisie, la corruzione di un’Italia a metà tra Crispi e Giolitti e in transito verso il XX secolo.
Il Valera vicino alla folla dei poveri e dei diseredati, da operaio della penna concepisce la scrittura non come esercizio di stile, com’è proprio degli scrittori borghesi, quelli «che stanno lì a loro agio, colla testa in mano, ad aspettare il soffio ispiratore e sciupano intere settimane a limare, a rincarnare, a rotondare, a pulire, a leccare i loro perioducci giulebbati e rachitici», bensì come randello con cui colpire, metaforicamente, la testa del borghese insipiente. Sulla scia di Zola, a cui Valera si sente affratellato non solo da affinità tematiche («L’idea di assassinare un uomo in treno non poteva nascere che nella testa di Zola»), ma anche, e soprattutto, da una poetica simile (lo studio diretto dell’ambiente, l’abitudine a documentarsi in modo «scientifico») che assume la scrittura come momento di modificazione del reale, quindi come strumento efficace di cambiamento.
Osserva infatti la curatrice Michela Sacco Messineo: «Lungi dal “cincischiare” sulla scrittura come può fare lo scrittore borghese, il “pennaiolo” Valera, pur non rinunciando agli espedienti formali più diversi, si serve della letteratura per costruire anzitutto un testo-manifesto, lo strumento di un progetto sociale». Gli espedienti stilistici messi in azione nel romanzo, dall’andamento polifonico a una «prosaccia» vivace e inventiva che si avvale di neologismi, forestierismi ed espressioni dialettali, al gusto per le descrizioni macabre e i soggetti turpi, che permettono di accostarlo alla scrittura degli scapigliati, da Boito a Tarchetti, fino agli effetti da feuilleton poliziesco, benché sempre ricondotti poi nell’alveo del registro giornalistico, devono comunque manifestare l’impalcatura ideologica che regge il romanzo e tramutarla in nuova consapevolezza da parte del lettore, contribuendo a indirizzare secondo giustizia il corso degli eventi. Purtroppo, storicamente non andò così: il generoso sforzo del «pennaiuolo» immerso nelle questioni più brucianti del suo tempo si infranse contro il giudizio di assoluzione degli assassini invocato da una Sicilia per nulla desiderosa di rispecchiarsi nel suo volto reale.