Paolo Volponi, Discorsi parlamentari

25-11-2014

I Discorsi parlamentari di Volponi, di Michele Dantini

 
Scrittore e poeta, dirigente industriale, politico, Paolo Volponi è stato anche appassionato collezionista e intenditore di pittura. Meno conosciuto sotto questo aspetto, ha in realtà disseminato le sue opere maggiori di riferimenti a antichi maestri e artisti contemporanei, come Burri, Fontana e Schifano; e a critici d’arte come Brandi e Argan.
 
Desta dunque emozione trovarlo impegnato nel 1991, in Commissione cultura del Senato, nella difesa dell’Istituto centrale del Restauro, di cui appunto Brandi è stato direttore per lungo tempo; o ricostruirne l’intesa, negli stessi anni sempre in Senato, proprio con Argan, con cui condivide dirimenti istanze politiche e culturali.
 
Parlamentare dal 1983 al 1993 per il Partito comunista prima, Rifondazione poi, Volponi è un eterodosso nel vasto fronte della sinistra italiana del tempo, provvisto di competenze manageriali. Tagliente nei confronti delle grandi associazioni industriali, porta con sé la sua esperienza di uomo d’azienda e di umanista persuaso dell’importanza di quella che chiama “cultura industriale”.
 
“Nell’industria non c’è narcisismo”, scrive nelle Mosche del capitale (1988). L’“industria” è per lui non solo né tanto la singola azienda, la persona giuridica o gli assetti proprietari che ne sono all’origine. È piuttosto la comunità di intenti, di istruzione e di lavoro che precede la produzione e che sostanzia questa stessa di valore etico e politico, “l’industria intesa come grande patrimonio comune, come effettivo moltiplicatore di beni, di occasioni, di partecipazione e di sviluppo civile della società”.
 
Proprio la storia dell’arte italiana, oltre alle convinzioni di cui era stato portatore Adriano Olivetti, con cui aveva collaborato a Ivrea, spinge Volponi a rivendicare un’idea di “cultura” che sia democratica e dispensatrice di opportunità. Invitato nel 1968 a scrivere la prefazione a un volume su Masaccio, lo scrittore marchigiano interpreta il primo Rinascimento in modi estremamente spigliati e personali, come un’epica di “figli di popolo” che accedono al livello della più alta produzione culturale e modificano il nostro modo di concepire le immagini. “Si fonda l’arte sulla scienza e si elevano i protagonisti popolari di arti ‘meccaniche’ alla dignità delle arti liberali, con il vantaggio di una doppia integrazione culturale e sociale.”
 
È un tema, questo dell’intreccio tra cultura e rinnovamento del paese, che lo impegna in profondità. Nel 1985 interviene in Senato in occasione di un dibattito sulla scuola secondaria e i progetti di riforma. Contesta che le discipline umanistiche debbano essere considerate “sconfitte” dalla cultura tecnologica ma rifiuta tutto ciò che è avulso. “Sono sconfitte le culture che non diventano politica”, afferma, “che non diventano programmi, metodi e mezzi” per un’ampia e virtuosa trasformazione sociale.