Parlami d'amore Mariù

04-10-2005

Canzoni di un'altra Italia, intervista a Roberto Giuliani di Claudia Presicce


Parlami d’amore Mariù, tutta la mia vita sei tu. Gli occhi tuoi belli brillano, fiamme di sogno scintillano. Dimmi che illusione non è, dimmi che sei tutta per me… Pochi, anche nel 2005, non hanno mai sentito in Italia le parole di questa canzone che arriva da un Paese ingenuo e lontano come era il nostro in quei lontani anni Trenta e per tutto il primo quinquennio del Novecento. Un paese sotto il regime in cui la musica aveva un ruolo molto diverso da quello acquisito poi nel tempo, in cui alle canzoni si chiedeva soprattutto di essere orecchiabili, con ritornelli che si potessero canticchiare o riprodurre facilmente anche perché non si potevano riascoltare le proprie canzoni preferite con la facilità che ci hanno consentito i mangiadischi prima e i mangianastri poi, i riproduttori cd fino agli odierni mp3. Eppure quelle canzoni hanno resistito nel tempo, sono rimaste icone inossidabili, anche se la radio trasmetteva soprattutto Giovinezza.
Intorno a “cultura, società e costume della canzone italiana” è uscito un libro edito da Manni che si intitola proprio Parlami d’amore Mariù e raccoglie una serie di saggi di alcuni studiosi della musica nei primi cinquanta anni del secolo breve.
“Cercare di cogliere l’evoluzione della canzone italiana nei primi cinquant’anni del Novecento significa ricordare anche che cosa era stata finora la fruizione della musica –spiega il professor Roberto Giuliani, docente di Storia della musica contemporanea alla facoltà di Beni culturali di Lecce– intanto parliamo di un periodo in cui aveva ancora molto spazio la musica che oggi definiamo “classica”. Nel Novecento si è creata via via una spaccatura tra chi ascoltava la musica leggera e chi quella classica; nei secoli precedenti questa differenza non esisteva perché la musica di consumo era sempre quella “composta”. Da Mascagni a Puccini al repertorio di romanze da camera ottocentesche, tutte erano considerate musica di consumo. La cosa che cambiò la fruizione della musica fu l’arrivo della radio con le trasmissioni del primo canale che iniziarono nel 1924. Prima di allora la musica era quella ascoltata a teatro o eseguita dal vivo per lo più, perché anche la diffusione del grammofono fu molto lenta. Il consumo del disco nel primo dopoguerra era molto relativo perché gli apparecchi di riproduzione del settantotto giri erano molto costosi. La presenza forte della musica leggera riprodotta cominciò con i primi quarantacinque giri nei primi anni Cinquanta. Fino ad allora il consumo come lo concepiamo oggi era molto ridotto…”.
La radio ebbe più rapida diffusione…
“Sì, perché il regime fece costruire una apparecchio economico, una sorta di radio rurale venduta a rate minime perché tutti potessero ascoltare la politica economica del Duce. Questa presenza importante di musica riprodotta servì a veicolare molto le canzoni, cosa che prima non esisteva. Solo alla fine dei Cinquanta cominciò il periodo sperimentale e si formò una spaccatura tra gli ascoltatori e gli sperimentatori della composizione con le varie avanguardie”.
Rispetto ai testi, brani come Parlami d’amore Mariù come si collocavano nella società?
“La canzonetta italiana ha sofferto sempre per i suoi contenuti contestuali poveri, se non risibili, malinconici, legati alla mamma o alla patria. Quelle canzoni però vanno lette rispetto ai valori importanti di quella società: la famiglia, la patria o l’amore. Cercare la qualità letteraria non è possibile, oggi chiediamo alle canzoni di significare qualcosa, ma allora non era così. D’altronde la canzone non doveva avere pretese letterarie, per fare le poesie c’erano i poeti, poi ci saranno i cantautori che cambieranno un po’ le cose. A quei tempi invece si chiedevano testi con emozioni facili, contenuti facilissimi, con peculiarità come orecchiabilità, cantabilità, melodia”.
Stilisticamente parlando, almeno in quei testi si rispettava un italiano corretto, cosa che non sempre si fa oggi.
“Certo, i testi di quegli anni possono anche colpire per anacronicità, per l’uso di un linguaggio non parlato. Oggi è il contrario, bisogna essere molto più diretti e anche più aggressivi nella terminologia, anche per farsi ascoltare dai giovani. Questo perché è cambiato il piano della comunicazione, ma è cambiato anche il target al quale rivolgersi: a quel tempo si scrivevano canzoni per i trenta-quarantenni di allora, oggi per i quindicenni in su. La fascia di fruizione è un’altra. E solitamente la scrittura dei testi oggi è calibrata perfettamente su quel momento storico in particolare, legata a quella comunicazione: tanto è vero che brani sanremesi che hanno un forte impatto e un grosso successo iniziale, dopo qualche anno scompaiono. Sono oggi prodotti molto legati alla moda di quei momenti specifici, quindi suscettibili a dinamiche molto più veloci”.
L’arrivo dei ritmi americani alla fine degli anni Quaranta cambiò un po’ le cose.
“Per aspettare canzoni che avrebbero fatto la differenza bisognerà aspettare Modugno e Celentano. Arrivò nel ’54 la tv in Italia e portò il Festival di Saremo nelle case, anche se all’inizio era tutto “italietta”, lacrime e mamme nelle canzoni. Anche qui il ritmo di penetrazione della tv fu lentissimo pur parlando degli anni del boom economico. I ritmi americani di musica da ballo, quelli dei juke box, furono dirompenti in Italia, dettero uno scossone alla musica. Si parlò di “urlatori”, di rivoluzione, di non musica. Perché fino ad allora c’era stata solo Vola colomba…”.

Poi la musica ha cambiato anche funzione: si è chiesto che le canzoni diventassero più di un esercizio stilistico nel tempo, che veicolassero dei messaggi.
“C’è un’intera categoria della storia della musica italiana che si chiama “musica d’autore”. La stagione dei cantautori è partita alla fine degli anni Sessanta, politicizzata o comunque sociale, con personaggi tipo Francesco Guccini o Fabrizio De Andre’. Poi tanta altra musica d’autore “nascosta”, perché scritta da altri che però autori non sono: Celentano per esempio non si scriveva le sue canzoni. Purtroppo ci sarebbe da raccontare una storia parallela di questi sconosciuti che hanno creato capolavori restando però nell’ombra, come Bixio appunto”.