Pasquale Voza, L’utopia concreta

10-10-2010

Quando nel Sessantotto la politica della vita irrompe sulla scena, di Roberto Ciccarelli

I movimenti studenteschi sono la spia della strutturale incapacità del mercato del lavoro di riassorbire l’eccedenza del lavoro intellettuale. Qualunque sia stata l’istanza politica che ne ha accompagnato lo sbocciare e il rifluire, l’antiautoritarismo del ’68, l’autovalorizzazione del vissuto e dei bisogni nel ’77, la Pantera del ’90 contro la privatizzazione del «pubblico» e la mediocrazia berlusconiana, la rivendicazione delle tutele essenziali contro il precariato due anni con l’Onda, i movimenti sono la risposta alla sciagurata incapacità delle sedicenti «classi dirigenti» di affrontare un problema che oggi segnala il declino di questo paese perduto. Non solo, quindi, metafisica della gioventù o, peggio, preghiera d’assistenza che figli ravveduti rivolgono a padri insensibili, ma insorgenze politiche che individuano una tendenza globale (la formazione o la crisi di un’economia cognitiva) e l’incapacità di un sistema di trovare soluzioni e rimedi contro la propria tara originaria.
Ma forse solo così i movimenti sarebbero la testimonianza di una sconfitta permanente e reiterata. Dal Sessantotto non si è mai visto in Italia un «potere» pentirsi per la propria cecità e per il suo compiaciuto ripetere formule sbagliate inneggianti alla «modernizzazione» politica, costituzionale oppure – più modestamente – a quella dei cicli didattici modulari nella scuola e nell’università che è stata definita dal centrosinistra guidato da Luigi Berlinguer con la formula pseudo-calcistica del «3+2».

L’oscena incompetenza (e impotenza) di questi «dirigenti» senza «classe» né intelligenza alcuna – quella dell’attuale governo è insultante anche per il buon senso – ha distrutto l’idea della formazione pubblica di massa la cui ricostruzione resta per i movimenti uno dei principali obiettivi – non l’unico, ma senz’altro necessario. Pasquale Voza, nel suo denso pamphlet pubblicitario in occasione del quarantennale del Sessantotto, esclude l’idea che quel movimento studentesco sia stato la prova di una modernizzazione fallita in Italia (Sidney Tarrow), di una rivoluzione mancata (Marco Revelli) o dell’avvento di una società neoliberista e individualista (il liberal Paul Barman in sintonia con Marcello Veneziani). Basterebbe, a questo punto, dire che i movimenti sono stati l’apparizione di uno spettro che il Pci e i suoi sempre più contraffatti epigoni democratici, pur di non raccogliere l’innovazione «dal basso», hanno scelto di suicidare?
Molti, ancor oggi, troverebbero soddisfacente questa soluzione. Ma non è così perché, pur diversi per generazione e composizione sociale, i movimenti denunciano la divisione tra politica e società civile e mettono la vita al centro della politica lottando per un diritto, non nella speranza di un potere più presentabile. «Utopia concreta» la definisce Voza con accento blochiano, segnalando come, a dispetto delle altalenanti apparizioni, i movimenti traducono il tempo che viene, non ratificano il poco che esiste.
In un libro commovente, e ancora oggi rivelatore, la Prise de parole (tradotto in italiano da Moltemi nel 2003) dello storico e antropologo francese Michel De Certeau c’è un saggio intitolato Il domani è già pronto a nascere, scritto nel giugno 1968, in cui viene analizzato, ciò che in poco più di 20 giorni il maggio parigino mise in parola: la capacità di vivere altrimenti la cultura dominante da parte di una generazione e di produrre uno slittamento di cui l’insieme delle parole e dei gesti non è ancora il segno, ma il cui riferimento è il coefficiente che li influenza tutti. Questo coefficiente distacca tutti i gesti dal loro uso normale; gli assegna un nuovo statuto, simbolo di una nuova esperienza. Oggi questo coefficiente è la presa di parola singolare e universale che non è più estranea ai nati dopo il Maggio.