Letteratura e musica, di Claudio Morandini
Siamo nel secondo Novecento, immersi in una fitta selva di riferimenti figurativi, musicali, letterari, filosofici, storici, di costume, con cui la Mari rende squisite le vite dei suoi personaggi. Due figure di compositori dominano il romanzo: di loro di sa il nome (Igor, Emilio), si raccolgono un po’ alla volta i dettagli biografici, si scoprono i riferimenti a personalità realmente vissute. Sono figure le cui vite sono impregnate di arte: i loro pensieri vagano per lo più attorno a questioni estetiche; le esistenze sono vissute (composte, organizzate, delibate) come opere d’arte, come quadri, o romanzi, senza però niente, direi, del compiacimento proprio del vecchio decadentismo. La voglia di far piazza pulita del secondo Novecento artistico (di fare i conti con la tradizione, di uccidere i padri, di cercare nuove vie) ha qualcosa in comune con la furia iconoclasta dei movimenti d’avanguardia del primo Novecento – ma gli intellettuali dell’ultima parte del secolo, e in particolare Emilio, lo fanno con una compassatezza che ha più dell’atto filosofico o della dimostrazione scientifica, che dell’omicidio sia pure metaforico dei vecchi futuristi. Il loro mondo, gli amici che frequentano, garantiscono sempre un alto livello di riflessione e di osservazione (o di ascolto); ma certo è un mondo che sa essere anche chiuso, autoreferenziale, fatuo a volte, talvolta malato di una sorta di istrionismo.
I due, Igor e Emilio, sono compositori, dicevo, e amanti; l’amore omosessuale sembra porsi, come in una reminiscenza ellenica, come il completamento di una paideia (Emilio è anche il maestro, ironicamente materno, del più giovane Igor). Dei due, Emilio è spinto da un vitalismo più accentuato, da una curiosità vorace: un carattere estroverso e una alta considerazione di sé e dei suoi mezzi lo rendono sempre protagonista nei consessi in cui si trova. Igor, di suo, è più portato alla riflessione, si ritaglia un ruolo di devoto allievo (pur con momenti di inquietudine anche sessuale e con l’aiuto di un analista distratto di suo). Eppure, nell’ambito del linguaggio compositivo, le due personalità sembrano contraddirsi (contraddizione feconda, umana, reale): il vitalistico Emilio, attraverso un lungo lavoro di prosciugamento e di depurazione da ogni gesto retorico e da ogni intrusione soggettivistica e da ogni contaminazione con la tradizione, vuole arrivare a un’espressione di estremo rigore formale; il riflessivo Igor, invece, progetta e realizza (solo in parte) un ciclo di vastità wagneriana, di ambizione smisurata, che si ponga come un contenitore enciclopedico del tutto.
Emilio aspira a una superiore eleganza compositiva fatta di leggerezza, a una musica che suoni necessaria come una riflessione filosofica, come il teorema di una scienza esatta: la strada verso questa espressione totalmente oggettiva è improntata ai principi della serialità integrale elaborati a Darmstadt. La sua è una “lotta di liberazione” dal fardello della tradizione e del soggetto (o dell’uso che del soggetto ha fatto la tradizione), alla ricerca di una musica che suoni nuova, insieme lieve e inattaccabile nella sua totale disciplina. In questo senso la sua ricerca di una musica di luminosa “novità” si pone agli antipodi rispetto a quella (oscura, demoniaca) del suo antico collega Adrian Leverkühn (il “Dottor Faust” di Mann), anche se bene o male si sta parlando sempre di musica dodecafonica, o di principi seriali applicati alla composizione, e Adorno c’entra in entrambi i casi. Se qualcosa in Emilio ricorda Hans Werner Henze (il vitalismo, appunto, la voracità intellettuale, l’amore per l’Italia condiviso con Igor, le inclinazioni sessuali e soprattutto quel titolo, “Boulevard Solitude”, che è anche il titolo della prima opera lirica di Henze), qualcosa rimanda invece a Pierre Boulez (il rigore compositivo, il titolo di certe composizioni, come “Structures” per due pianoforti, il tenore di certe riflessioni, il rapporto arcigno con la tradizione, e anche una certa attenzione per la costruzione della propria figura pubblica…). Quanto a Igor, dietro al suo ultimo progetto mastodontico (concepito intorno ai sette giorni della settimana, officiato come un rito, in cui si fondono tutte le possibili discipline artistiche) è fin facile intravedere l’immenso ciclo “Licht” che tenne occupato Karlheinz Stockhausen nei suoi ultimi anni.
“Boulevard Solitude”, il titolo del denso romanzo di Patrizia Mari, rimanda appunto alla strada che Emilio si trova a percorrere verso un’arte di superiore distacco: dalla contaminazione del mondo, ma soprattutto da se stessi, dall’io visto come qualcosa di sostanzialmente impuro. Una strada che, nonostante la devozione di Igor, è da percorrere in solitudine (non proprio, però, non del tutto: le riflessioni di Ernesto Negroponte, un filosofo con tendenze mistiche che nella seconda parte del romanzo diventa un complice intellettuale, fungono da imprescindibili indicatori).