Philppe Portier, L'ossessione dell'Illuminismo

24-07-2009
La terza via del papa polacco, di Marco Burini

Charles Taylor ricordava che il cattolicesimo si trova preso oggi in un’alternativa: deve scegliere tra la via del ‘modern catholicism’, che si tradurrebbe con la diluizione della religione romana nell’Aufklärung che rifiutava fino a poco tempo fa, e quella della ‘catholic modernity’, fondata su un rinnovato disegno di inglobamento della società secolare. E’ in questa seconda direzione, senza ombra di dubbio, che si è impegnato Giovanni Paolo II”. Un uomo intransigente e illuminato che nel suo lungo Pontificato ha cercato di inscrivere nel “grande racconto cristiano” il mondo nato nell’età dei lumi, grazie a una critica radicale più che ossessiva (il titolo italiano del saggio è un ammiccamento psicoanalitico, l’originale francese è un più sobrio La pensée de Jean-Paul II. La critique du monde moderne). La teologia politica di Wojtyla è contraria ai due grandi paradigmi del mondo moderno, il liberalismo e il marxismo, e non si lascia suggestionare né dall’espansione del primo né dal tracollo dell’altro. Sono entrambe soluzioni che non lo convincono perché povere di umanità mentre “la chiesa possiede, grazie al Vangelo, la verità sull’uomo, verità che ha ricevuto dal suo maestro Gesù Cristo”, come dice ai vescovi latinoamericani riuniti a Puebla, in Messico, il 28 gennaio 1979. “Questa verità completa sull’essere umano costituisce il fondamento della dottrina sociale della chiesa, così com’è la base della vera liberazione”, aggiunge in questo discorso programmatico. E’ il fondamento teorico delle sue encicliche sociali (“Laborem exercens”, “Sollicitudo rei socialis”, “Centesimus annus”) che i commentatori tenteranno invano di rubricare come di destra o di sinistra.

In realtà secondo l’autore di questo saggio, docente di Scienze politiche all’Università di Rennes e di Teoria politica all’Istituto di studi politici di Parigi, Wojtyla non è stato né un restauratore né un rivoluzionario, e nemmeno un inclassificabile come sosteneva Régis Debray. “La sociologia delle istituzioni rileva spesso che di fronte al movimento della storia le organizzazioni, dopo tutto, non hanno poteri di scelta se non fra tre grandi opzioni: la ritrazione, la mobilitazione, l’adeguamento.
E’ alla terza via che a noi sembra si riporti il Papa polacco”, un “bricolage” in cui “riprende in buona sostanza il sistema preconciliare aggiungendogli, marginalmente, degli elementi inediti, formulati spesso dal Concilio Vaticano II, che lo rendono più accettabile alla società secolarizzata con la quale egli si ritrova a misurarsi”. L’intransigenza illuminata, che è la cifra del suo stile pastorale, si nutre a livello filosofico di un “tomismo esistenziale”, san Tommaso d’Aquino più Max Scheler, maturato negli anni della formazione ed esplicitato in due testi filosofici di rilievo, “Amore e responsabilità” (1960) e “Persona e atto” (1969). Sullo sfondo l’esperienza “romantica” della Polonia, la patria dove impara la lingua degli affetti e del teatro.
Ma è un teatro drammatico, senza fronzoli, una specie di filosofia messa in scena che gli dà solidi contenuti ancor più di quel carisma attoriale che lo renderà celebre. Il Papa slavo attingerà a questo bagaglio per misurarsi atleticamente con la modernità e inchiodarla alle sue alienazioni, a est come a ovest.
La lettura di Portier mette insieme, forse con qualche eccesso di schematismo, il Wojtyla di Assisi e delle selvagge liturgie africane aborrito dai tradizionalisti e il Wojtyla polacco premoderno e accentratore inviso ai progressisti. Ma riesce a cogliere l’ambizione teologica di un Papa che non era soltanto il signore del palinsesto planetario. Giovanni Paolo II ha testimoniato che si può pensare ancora in grande, costruire cattedrali con la mente. Certo, essere intransigenti illuminati oggi è difficile e intellettualmente impegnativo, ci vuole il fisico. Lui ce l’aveva.