Su di lui è stato scritto di tutto e la sua figura è rimasta ininterrottamente sotto i riflettori della cronaca e dei commentatori dall’elezione alla morte, per ventisette anni. Ma possiamo davvero dire di conoscerlo? E possiamo dire di aver capito tutto della sua opera? È a partire da queste domande che il politologo francese Philippe Portier ha scritto il saggio L’ossessione dell’illuminismo. Giovanni Paolo II e il mondo moderno (Manni editore, 240 pagine, 18 euro), traduzione italiana di un denso studio, uscito in Francia nel 2006 con un titolo forse più appropriato, La pensée de Jean- Paul II. La critique du monde moderne, dedicato al pensiero del papa polacco così come si è precisato nel corso della vita e del pontificato di Karol Wojtyla.
Gli studiosi di Giovanni Paolo II, sostiene Portier, si dividono in due grandi categorie: coloro che lo hanno visto come papa della restaurazione e coloro che lo considerano invece il papa della rivoluzione. I primi, in genere vicini al polo “modernista” del mondo cattolico, ritengono che Wojtyla abbia sostanzialmente ridimensionato se non addirittura negato la “rivoluzione copernicana” nata con il Concilio Vaticano II portando la Chiesa su posizioni preconciliari. I secondi, tradizionalisti dichiarati o tendenziali, pensano al contrario che Wojtyla abbia dato seguito all’azione di Giovanni XXIII e Paolo VI cercando, sia pure in modo non sempre lineare, di applicare gli esiti conciliari. L’autore non sposa né l’una né l’altra tesi e si dice in disaccordo anche con chi, come Régis Debray, definisce Giovanni Paolo II un papa “inclassificabile”.
La terza via proposta da Portier è quella, come la definisce, del papato bricolage, all’interno del quale Wojtyla «riprende in buona sostanza il sistema preconciliare aggiungendogli, marginalmente, elementi inediti, formulati spesso dal Concilio Vaticano II, che lo rendono più accettabile alla società secolarizzata con la quale egli si ritrova a misurarsi”» Ma tutto ciò non vuol dire confusione, né incertezza. Si tratta di un progetto nuovo e originale, adeguato ai tempi, che si colloca soprattutto sul versante dell’intransigenza e si configura come «alternativa antimoderna alla modernità».
È solo a titolo secondario, sostiene Portier, che tale alternativa assume il linguaggio dei diritti dell’uomo e i contenuti (la libertà religiosa, il valore del corpo) propri della filosofia nata con l’illuminismo.
Il cuore del pensiero di Wojtyla sarebbe in realtà caratterizzato da tre principi: quello di veridicità, secondo il quale la verità sussiste nella Chiesa cattolica, quello di opposizione, ovvero l’idea che la società non possa essere ben regolata senza la religione, e infine quello di restituzione, in base al quale ciascuno, nella posizione assegnatagli dal creatore, si ritrova a dover rispondere della vita stessa del proprio simile.
«Il nuovo si incastona nell’antico senza sovvertirlo»: dice così Portier per fotografare Wojtyla e la sua opera. Quello di Giovanni Paolo II sarebbe un cattolicesimo intransigente “riaggiustato”, e le concessioni fatte alla modernità sarebbero da inserire in un contesto di eteronomia, non di autonomia dell’uomo. Il movimento della storia, sostiene papa Wojtyla, non può abbandonarsi senza grave rischio alla potenza dell’umano. Il punto ultimo di radicamento è e resta la legge di Dio. Prova ne sia lo stato di desolazione attuale di quella parte dell’umanità che, essendosi allontanata dalla legge divina, ha realizzato a caro prezzo «l’amore di sé fino al disprezzo di Dio», per usare le parole di sant’Agostino. Come scrive il papa in Memoria e identità, «l’uomo non è capace di rimettersi in piedi da solo» ed è unicamente Dio che «può imporre un limite definitivo al male». E tuttavia anche qui Wojtyla opera un aggiustamento e coinvolge tutti gli uomini di buona volontà, compresi i non credenti, nel dovere di costruire un mondo più giusto.
Le tesi del professor Portier sono stimolanti e occorre dargli atto di aver compiuto un grande sforzo per leggere il pontificato di Giovanni Paolo II in modo sistematico.
A lungo andare però il tentativo di interpretare un grande papa come Wojtyla lasciando ai margini la prospettiva cristologia appare poco convincente. Perché fu un papa dalle robuste venature mistiche. È ben vero che l’autore ricorda la prima enciclica wojtyliana, la Redemptor hominis, con la celebre e fondamentale sottolineatura: se l’uomo è la via della Chiesa, occorre dire a chiare lettere che Cristo è la via dell’uomo. Ma questo aspetto, assolutamente centrale nell’insegnamento di Giovanni Paolo II, non può essere riportato a margine, come uno fra i tanti. Qui siamo nel cuore del suo pensiero e soprattutto della sua testimonianza. L’esclamazione nel giorno dell’insediamento, «non abbiate paura, aprite, anzi spalancate le porte a Cristo», non fu uno slogan ben scelto. Fu al tempo stesso il programma e la sintesi di un pontificato conclusosi quasi trent’anni dopo con il papa malato e sfinito, ma ancora aggrappato a una semplice croce di legno.