La vita non si trattiene in un segno immobile, di Franco Pappalardo La Rosa
Di tre segmentati poemetti, che per argomento hanno il corpo, si compone questo libretto di versi di Pier Mario Giovannone: il corpo poeticamente indagato e rappresentato non solo come oggettivo riferimento della percezione identitaria (“spazio fisico e metafisico / del nostro vissuto”), bensì anche quale alterità con cui l’io debba misurarsi a ogni istante della propria esperienza vitale, per riconoscersi, per accettarsi, e (junghianamente) individuarsi.
Il corpo stilizzato nei versi non è, tuttavia, un mero luogo, uno sfondo; costituisce, piuttosto, un’occasione: lo stesso elemento scatenante della poesia. Focalizzi, infatti, il centro della continua perdita di sé, o si ponga alla stregua di enigmatica, antagonistica entità nello sdoppiamento, talora sino e oltre la soglia dell’alienazione, tra l’io conscio e la sua proiezione materiale, esso mai dismette la propria funzione di oggetto poetico teso a “comunicare”, nel bagliore e nello scatto ellittico della parola, nella svagata trasparenza della frase antilirica, una transizione di senso verso le radicali unità di pensiero e stupore, di testo e immagine, di presenza e confronto tragico con la frontiera del nulla. Da tale specola, il corpo poetico rifiuta, nel reticolo versificatorio, d’atteggiarsi a simbolo. Perché, per Giovannone, la vita non può essere trattenuta in un segno immobile, ma è sempre altrove. È nel rapimento, nella fugacità, nella sensazione transeunte dell’effimero: nell’eco dell’invano (come attesta lo sconsolato bilancio in secca perdita del poemetto conclusivo).
A contrastare la grevità insita all’idea del corpo, a deponderarla quasi, il poeta si avvale, in ogni caso, di un denso nominalismo e di uno stile fortemente accumulatorio dei nomina impiegati. Che, senza smarrire il loro esatto riferimento ai sottostanti rapporti oggettivi e coinvolti in cadenze metrico-ritmiche svariate e briose – dal “cantabile” delle sfilze di senari-settenari e otto-novenari all’andamento litanioso-responsoriale, per esempio, di Per solista e responsorio –, coniugano le forme del linguaggio in un’espressione scorrevole, elegante, costantemente gnomica. Con un lieve effetto di giocoleria concettuale e verbale, connesso all’iterata e irregolare presenza delle rime (“corpo senz’anca / che claudica e arranca”; “corpo come prodotto / lato elevato al quadrato // alzato / bugnato”), degli accordi omofonici (“punti di appoggio alle sue fughe / ai suoi ritorni / alle sue stasi // basi / dei suoi balzi”), degli scarti sonori dei lapsus (“odora il padre e la madre”), del mélange degli identici gruppi sillabici (della loro inversione, anche, nello stesso periodo versico: “corpo puro corpo porco”) e delle insite riprese anaforiche (“corpo in affitto / corpo che cade a capofitto / corpo con fitte / corpo senza affetto / corpo da rigetto”). Il tutto passato al filtro di un’ilare, irridente-amara ironia, che agisce da generale attenuazione litotica.