Piera Mattei, La materia invisibile

01-05-2007
Risultato imprevisto, di Cristina Annino
 
Nei libri di Piera Mattei che mi è capitato di leggere, mi ha sempre colpito, come musica di sottofondo, una costruzione quasi volontaria della propria solitudine. Ciascuno di noi alla fin fine è solo, potremmo dire e a ragione, ma quello di Piera sembra quasi uno spostarsi di lato, quindi una solitudine speciale, non triste perché appunto costruita e che anche le fornisca, chissà, un maggiore coraggio di giudizio nei confronti degli altri e di se stessa. I perché biografici non devono essere invadenti, c’è solo il diritto di spiegarsi in che modo tale scollamento espresso in formule poetiche pacate, eleganti e sempre suggestive, possa dare spazio alla forza della poesia che, il più delle volte “disobbedisce” al proprio autore. La risposta credo si trovi nel suo ultimo volume di versi, La materia invisibile. A pag. 76 chiude così la poesia intitolata Le parole e la moda: «Ecco che mi succede: / non parlo più con gli uomini. / Parlo con le parole / e le parole tra di loro». A pag. 32 inizia la poesia: «Chi osserva non visto / il movimento delle mie labbra?». E potremmo seguire con altri esempi. Ora questa specie di “mutacismo” fedelmente perseguito dall’autrice, svuota le composizioni di persone reali, così che noi, leggendo, vediamo solo terra, cielo, animali, quasi che a nostra insaputa, fosse nel frattempo successa una “catastrofe” che ha fatto sprofondare tutti gli esseri umani. Situazione quasi magica nella quale vediamo lei girare e spaziare in questo mondo deserto con il faro del proprio sguardo. Quale meccanismo ha smesso di funzionare nella sua vita, oppure è addirittura esploso? Il titolo della raccolta, La materia invisibile, è talmente pieno di significati e del loro contrario, da scivolare quasi inosservato. Sappiamo che la materia è costituita da atomi invisibili all’occhio umano, però la materia è visibile. Allora l’ossimoro cadrà a due condizioni: che come materia non venga considerata solo una sedia (a Mattei di ben altro interessa la visibilità), e che l’autrice abbia la facoltà di penetrare con lo sguardo, cioè non in sogno, fino a ciò che manca di apparenza. Pertanto, in un processo di decodificazione, si affermerà invisibile quel che invece appare. È sbagliato pensare che l’Essere non possa aver luogo senza una data condizione in una maniera di essere. In definitiva, Mattei fa la rappresentazione del risultato imprevisto. La poesia di apertura del libro, dicevo, è stupenda: Mattei più appassionata alla vita, parla di solitudine con più dolore, quindi passione in senso di pathos ovviamente: «sussurri affilati di delitti / scagliati come sassi hanno colpito / ora la tempia e sono entrati / dentro lei non può snidarli / tuttavia contrasta la dura / presa e li sospinge / di lato mentre sospira». Da notare la pesantezza dolente dei primi versi della strofa che si chiude poi con la noncuranza di parole come «li sospinge di lato mentre sospira». Già qui c’è il dramma di un accaduto che Mattei scolla da sé per una scelta personale di solitudine o di non partecipare al pathos, appunto. Ancora: «E non pronuncia amore / mai trova le parole / quella pazzia santa del corpo / non la pronuncia e dentro il capo è fissa». Le condizioni per una colluttazione del corpo con gli eventi ci sono state dunque, c’è il ricordo nella, strofa successiva, ma qualcosa ha deviato l’attenzione stessa del corpo che si è aggrumata tutta nella parte alta dell’organismo, negli occhi. «Ormai la vita l’ha rovesciata e l’osserva / dal lato dove nasconde i nodi». Parole che si riallacciano straordinariamente al titolo del libro. Dunque, Mattei è una persona vedente. Non è un gioco di parole e non è un’ovvietà. Non sempre gli occhi che guardano vedono, e non è vero che vedendo in una maniera solo propria, qualcuno possa generare una compagnia di pensieri comunicanti. In tal caso si è doppiamente soli. La fitta presenza degli animali, in tutto il percorso letterario di Piera Mattei, forse supporta questo suo modo di essere. Infatti si potrebbe dire che le bestie stanno all’uomo come gli atomi stanno alla materia. La comunicazione di Piera con il gatto in questa poesia, per esempio, ma anche in altre, è di una visionarietà oculare che fa scattare in alto quello che potrebbe sembrare semplice amore: «…il gatto la segue / fissa i fantasmi densi / come pulviscolo nello spazio insonne / infine uno scelto a caso con vellutate / patte lo afferra e nel silenzio lo divora». Sappiamo bene che la poesia, per lo meno in poeti di una certa categoria, è il nostro stesso organismo. Si può “riciclare” la propria realtà con i polmoni lo stomaco, il cuore e via dicendo, dando per scontato che gli occhi servono per osservare la realtà. In Mattei i circuiti interpretativi si sconvolgono. Si assolutizza, lo sguardo, l’ovvio diventa funzione cognitiva. Nella sua produzione narrativa Piera fornisce esempi efficacissimi di come il saper guardare in un dato modo porta alla visualizzazione di esistenze non apparenti, e a delle “eresie” comportamentali a volte misuratamente ludiche. Alludo al libro Umori regali, e a racconti quali Il topo e ad altri. Se la comunicazione è però così ridotta e dilatata, si tratterà di visione-visionaria. Non fantastica, si badi bene, bensì estroflessione della propria interiorità all’esterno. In una direzione senza ritorno e per questo desolatamente solitaria. Perché la visionarietà in tal senso non sarà mai profetica, ma carceriera. La fine inevitabile, o il proseguimento normale giacché lo sguardo non ha sesso, non ha materia e non ha storia, è rappresentata egregiamente dalla parte ultima del volume, dalla sezione Profili celesti, dove Mattei dà vita degna a quella sorta di “eresia” del suo sistema d’incontro con l’angoscia. Intendo che qui, più che gli avvenimenti allungati, appannati, di una circonvoluzione quasi organica, si assiste alla traduzione della musica in parole, del tempo in linguaggio. Qui l’autrice ritrova Tempo e sfaldamento della Materia, e quindi, paradossalmente, una propria territorialità.