Piera Mattei, L’equazione e la nuvola

01-03-2010
Il parlato raffinato della Mattei, di Luigi Celi   
 
La categoria del viaggio, fin dai poemi omerici, è un archetipo filosofico-letterario: la vita, la conoscenza sono viaggio. Dalla nascita alla morte noi siamo in viaggio, siamo ontologicamente, strutturalmente viaggio.
Anche L’equazione e la nuvola ultima silloge di poesia di Piera Mattei è un viaggio, una rivisitazione di memorie, immagini, sensazioni, dalla Sicilia alla Grecia al Marocco, da Duino Milano Parigi Chicago a Roma, perseguita con lavoro di bulino sul linguaggio.
L’opera è formalmente un unicum, rastremata nella scelta terminologica, senza concessioni all’aggettivazione; per altro si predilige l’attività di “nominazione” (cfr. pag. 53) delle cose e degli eventi:
Nomi. In quello studiato Giardino/ i nomi sanno quale impegno sia/ farsi riconoscere e restare/ scritti in modo corretto” (pag. 55);
il nome fa esistere gli animali, l’airone, per esempio, che
attende/ che si dica: ‘Ecco un airone/ cinerino!” (pag. 57),
e perfino fa sopravvivere i grandi:
nominiamo Michelet Byron Cvtaeva/ che abitarono qui/ - atomi della loro intelligenza sono con noi/ e noi siamo dentro la stessa/ invisibile onda” (pag.58);
nomi che un giorno verranno meno (cfr. pag. 56) - “il nome che più non chiami/ che non leggi più/senza incendio/brucia/-s’annera” (cfr. pag. 42) .
I nomi non sono aulici, né eterni. La scelta non è, però, di basso profilo, i significanti sono sempre adeguati al loro significato, il verso rivela una struttura complessa, spesso giocata tra il detto e il non detto. Si va alla ricerca di quelle esperienze - in immagini e lacerti di senso - che sembrano non poter emergere diversamente che con lingua sottoposta alla spremitura sintattica e ritmata del poetico; le rime interne sono usate con misura; il sommesso si accompagna ad un parlato raffinato; il gusto del raccontare si sposa con la tendenza a ripercorrere la realtà nei suoi diversi piani storici e di attualità. La suggestività della Sicilia, della Grecia, del Marocco, ci viene comunicata con un apparato formale tale da farci partecipare alla sacralità di luoghi e di antiche culture.
 
Il backgroud filosofico dell’autrice la induce a mantenere brechtiana distanza e a cercare compensazioni al perturbante sacrale, storico e naturale, in un poetare da cui emerge una qualche propensione al razionalismo, subito però ridimensionata dal dubbio. Ciò spiega il richiamo a Descartes nella sezione Palinsesti. Il doppio componimento “Leggevo Descartes” sviluppa ellitticamente un pensiero di Cartesio, ma dopo procede per territori suoi propri. Il testo poetico in oggetto, “chiaro e distinto” nel lessico, diviene criptico e problematico nella sostanza:
quando l’anima convoca il ricordo/come cagna se ne mette in caccia/ le tracce ne odora...
Se il testo si rifà in apparenza a Cartesio, per altro è antinomicamente freudiano. L’anima che “convoca il ricordo”, infatti,
scende le scale rapide/ lungo tragitti scuri/ lo sospinge/ con una sola mano l’afferra”.
 
Quale scale sono queste, se non quelle della psiche? Se l’anima in Cartesio si identifica con la res cogitans, in Freud solo in parte la psiche è ragione. L’"io", come ragione, è una struttura di superficie, che Freud paragona a un corpo calloso; il profondo della psiche, l’inconscio, è ben più vasto. Il fondatore della psicoanalisi è l’anticartesio.
Nella poesia di Piera Mattei l’anima procede in uno scavo che può somigliare a una discesa disorientante nel sommerso, crudelmente agli inferi, da cui si può anche tornare con un brandello di verità, afferrato con una mano sola, e che può solo per breve tempo pacificarci.
 
Il secondo componimento di “Leggevo Descartes” mi suggerisce l’antica teoria atomista, non cartesiana, che gli oggetti emanino atomi e riproducano immagini nell’anima imprimendole. Gli atomi penetrano attraverso gli occhi e i pori del corpo, e l’anima, lucrezianamente, se vuole raggiungere i ricordi/immagini deve passare per gli stessi canali. Citiamo i versi di Piera Mattei:
le tracce lasciate dai ricordi/ sono pori/ che l’anima attraversa/ e vi soggiorna/ fino a che/ l’anima vuole/ il ricordo solo per sé”.
I versi successivi esprimono una lotta e sono più o meno ripetuti anaforicamente nel primo e nel secondo componimento, cioè secondo quella forma retorica che in antico tendeva ad innalzare il livello del discorso. Il conflitto prosegue finché, dice il poeta, il ricordo “tuona in piena luce”, cioè viene alla coscienza, poi sopraggiunge la quiete, c’è pace con se stessi, col proprio stesso corpo, con la propria natura animale:
l’anima si concede... di riposare a lato/di un ramarro verdissimo/spillante linfa d’esagerato rossore.”,
cioè anche con gli aspetti crudeli, sanguinanti, del nostro essere.
 
L’operazione di rimemorazione è essenzialmente mirata alla conoscenza: così è stato nella “reminiscenza” di Platone, così fino a Leopardi, Freud, Proust. Proust in una lettera scriveva: “l’arte è un sacrificio perpetuo del sentimento alla verità”. La soggettività del sentimento è tenuta a freno dalla Mattei in vista di una rappresentazione del vero, che richiede lucidità, distacco, ma anche realismo, fisicità. Piera Mattei non crede alla Verità con la lettera maiuscola: senza negarla, la ridimensiona alla sfera limitata del vissuto e del conosciuto fenomenicamente. Con Kant ritiene che “il solo fenomeno ci sia accessibile, e di quello solo possiamo distrarci a ragionare, ingannando la consapevolezza profonda dell’inutile aggressione al noumeno” (L’immaginazione critica, pag. 21, Zone editrice). Lo si vede nell’attenzione che questa poesia riserva alle percezioni: l’odore delle case, delle chiese, perfino dei crisantemi in putrefazione, (cfr. pag. 111) “il rumore di tazzine” (pag. 78); o alle cose: una pianta che spunta "dall' umide pietre", “i nidi scontrosi di passeri”, gli “antichi vasi in colmi secchi”. (cfr. pag 25) “i pannelli” che vengono issati sui grattaceli di Chicago, (pag. 96), o anche alle piante, agli animali - le colombe, il gatto, il gufo -, realtà percepite nel quotidiano, cose e soprattutto immagini, per cui Piera può perfino dire e apparentemente contraddirsi: “non amo i ricordi – i racconti sul filo dei ricordi/ ma le immagini dei ricordi che mi raggiungono/ quelle le afferro/ in queste brevi mani le tengo strette/ - davanti al mio viso che non vedo” (pag. 68).
 
In “Oleandri” gli alberi si presentano quali “immagini della mente.../ offrono la loro ombra rosata/ a un gatto striato/...”; addirittura la poetessa “vede del gatto i pensieri/” e con ironia aggiunge:
li leggo quasi fossero stampati/ nell’impercettibile movimento delle orecchie/ si prepara ad occupare/ più comodi spazi dentro la casa/ e ancora di più nella mia mente” (pag. 20).
Il componimento “Noi” è anch’esso emblematico: “Noi non comprende che due/ ogni volta due soltanto/ così ci teniamo per mano/ come monade doppia”. Questa poesia ha nascosti legami con Oleandri. Nella monade di Leibniz, “senza porte e senza finestre” c’è in microcosmo il macrocosmo, dalla monade non si esce e non si entra, l’ordine del pensiero corrisponde all’ordo rerum, la corrispondenza è occasionalisticamente perfetta come per Geulinx e Malebrance: res cogitans e res extensa sono come due orologi che funzionano in sincrono: indicano lo stesso orario, senza che ci siano relazioni dell’uno con l’altro. Quali l’oleandro e il gatto, del precedente testo, nei versi della Mattei, tutto ora è in immagine nel nostro pensiero, tutto è già in noi; solo in apparenza, soprattutto in alcuni componimenti, predominano gli oggetti del quotidiano, e così può solo ingannevolmente sembrare ci si muova in una scelta di campo minimalista. In realtà avviene come nei quadri di Edward Hopper, Piera dipinge/intesse con i suoi versi una tela di oggetti, animali, persone, che sono forme e luoghi iconici a volte raggelati: topoi-archetipi, che non si riducono a meri dati realistici. Gli oggetti, come in Hopper, vengono sovradimensionati con accostamenti che sono similitudini e inducono ad interpretazioni allegoriche. Il raggelamento iconico nasce kantianamente nel “libero gioco di immaginazione ed intelletto”, non comporta alcun disamore, anzi in questo auratico libro di Piera la poesia sembra irrorare come fresca acqua l’amore per la vita, per le piante, gli animali. I riferimenti biologici si caricano spesso di rispettosa simbolicità antropomorfa, come a voler ribadire una linea di continuità evolutiva tra i mondi vegetale animale umano.
 
Ho lasciato per ultimo l’analisi dei testi delle prime sezioni della I° parte, particolarmente evocativi.
La I° sezione, Dirac e la nuvola, raccoglie testi scritti nel luglio 2008 ad Erice, in Sicilia. Si sviluppano, su piani paralleli, poesia e ragioni metapoetiche. Qui non possiamo prescindere dalla spiegazione del titolo del libro che ci viene fornita dall’autrice in esergo: Erice, che “legava il suo nome a Venere Ericina”, sede di numerosi conventi di origine medioevale, “oggi trasformati in sedi per incontri internazionali sulla scienza”, “gode di un microclima per cui fredde nuvole l’attraversano in corsa, in piena estate”.
Il primo testo del libro, "leggevo Keats", prende spunto dalla chiusa dell’Ode “On a Grecian Urn”: “Beauty is truth, truth Beauty – That is all/ Ye know on earth, and all ye need know”.
Così dunque comprendiamo come mai Piera Mattei abbia potuto disporre le cose che abbiamo bisogno di conoscere sulla terra, non secondo una mera rappresentazione razionalista; la bellezza, infatti, come la fuggitiva nuvola di Erice, vela la realtà: le pagine del libro, i colori, i gialli lampioni; “soffoca” perfino “il bianco”, che “non è colore”, ma “accende” i colori (pag. 50), e nello spettro contiene in sé tutti gli altri colori. La nube (la bellezza) copre il vero (il bianco), che come luce dovrebbe illuminare il senso. Cos’è infatti la verità - fuori da ogni pretesa di determinazione essenziale dell’ente - se non luce che rende possibile la conoscenza, nonché l’apprezzamento del bello? Anche la schiuma del mare, da cui nacque Venere, vela e svela in ogni istante la spiaggia, nel duplice movimento che è il “gioco di Afrodite con la schiuma”. Una metafora, pure questa, della bellezza, ma anche dell’unità nella distinzione tra bellezza e verità (alétheia per i greci), e che - sappiamo da Heidegger - svela e vela anch’essa l’ente. Il motivo evocativo della nube/schiuma tornerà più volte in altri componimenti, come nel bel testo “Forme d’aria verso San Vito lo Capo”, dove la non leggibilità delle forme celesti e terrestri, il loro sfrangiarsi, il carattere occultante nella mutevolezza dei contorni di ogni verità definita dal limite, ci condannano al gesto ripetitivo e conformista che chiude la nostra conoscenza nell’impossibilità di abbracciare altro e altri che noi. Emblematico il verso finale di pagina 13, in cui l’incapacità di guardare è semanticamente rovesciata: “il sole ha rifiutato lo sguardo”.
La bellezza, come la mobile vetrosa trasparente verità, può essere distrutta anche da un colpo di tosse... per converso, ciò che si muove si arresta se l’occhio lo fissa nell’attimo: il divenire allora sottende e vela l’essere dell’ente. Occorre trattenere il fiato perché “un colpo di tosse” non mandi “in frantumi/ il silente paesaggio/ l’immobilità respira”... c’è “divieto/ di parlarne si resta/ senza parole” (pag. 14). Il theorein, il contemplare in senso greco-antico, nasce dalla meraviglia, come sostenevano Platone ed Aristotele.
 
Il secondo testo, “Dirac e la bellezza”, coglie pitagoricamente e platonicamente la bellezza nell’equazione matematica di Dirac, che dà titolo a questo libro con la nuvola del primo componimento. La formula, che si trova nell’Aula Magna del Centro Ettore Majorana di S. Domenico, verte sull’ipotesi dell’esistenza dell’antimateria. Il testo della Mattei evoca “le passate beltà”, non solo dell’arte, ma anche quelle connesse all’"equazione". Per i greci le dimostrazioni ben eseguite sono belle: la scienza ha una sua intrinseca bellezza, che dà proprio per questo eudemonia, felicità; essa attiene alla perfezione formale del ragionamento. Se beauty and truth sono distinte nell’unità di uno sfondo - “earth”, in Keats -, allora la poesia non può che farsi intuizione globalizzante di ogni singolo essere umano con la natura e la storia e se essa utilizza mitologemi può ancora avviarsi verso una meditatio secunda che però riverberi dai testi solo attraverso metafore, come quella de “il gigantesco platano paziente” e della “sua ninfa amante” (pag 27), le cui agili dita “tracciano nell’aria/inviti a immobili immagini di santi”.