Il femminile dell'arte, di Roberto Pagan
L’ultimo libro di Piera Mattei, L’equazione e la nuvola, che corona una fecondissima sequenza creativa, fatta di versi, di prose e riflessioni critiche, prende l’avvio da un’esperienza vissuta dall’autrice durante un soggiorno a Erice, “antico borgo a picco sul Golfo di Trapani”. Bisogna aggiungere che tale borgo è sacro non solo alla Venere indigete, ma anche al fior fiore degli ingegni versati nelle scienze fisiche e matematiche che qui si danno di quando in quando convegno: ambiente dove un qualunque profano si sentirebbe pesce fuor d’acqua, ma non la nostra amica che, per consuetudine familiare, vi è come di casa. Il che – come si vedrà – agisce da stimolo benefico sulla sua poesia. Chi non ricorda la vecchia discussione sulle “due culture”, quella umanistica e quella scientifica ormai tra di loro così divaricate, e il vantaggio che ci sarebbe a ricongiungerle insieme? Qualche volta succede.
C’è ancora un dettaglio cui si accennava in una nota del libro, e riguarda un capriccioso
“microclima” proprio del luogo, per il quale talora “fredde nubi l’attraversano in corsa in piena
state”. Ora si dà il caso che chi scrive queste righe si sia trovato davvero a sperimentare una volta le
conseguenze di tale fenomeno. Era un giorno di maggio inoltrato, ma al posto del sole sfolgorante
già messo nel conto, ci trovammo immersi in un freddo nebbione, che pareva di essere sulle
Dolomiti in pieno novembre. È vero peraltro che nella stessa mattinata, il sole ricomparve glorioso
a illuminare laggiù la costa azzurrissima verso San Vito Lo Capo.
Non si creda che un nesso non ci sia tra il microclima meteorologico e il clima poetico della silloge
in oggetto. Rapidissimi scarti d’umore in un gioco volubile di chiaroscuri si verificano già ad
apertura di libro. Vedete come la faccia da padrona la nuvola, ariosa creatura degna di un Debussy che ci viene incontro, addirittura dalla finestra, nella prima pagina (leggevo Keats):
Veloce è entrata / dalla finestra una nuvola / - le pagine se ne intridono – se voglio toccarla fugge / spirando verso la cupola moresca // bellezza è verità / ripete il libro / e ora questa nuvola / protagonista di una storia / cela i colori / si diffonde al giallo dei lampioni / soffoca infine il bianco // non fanno dunque più parola / le colombe bianche / gioca Afrodite con la schiuma / contro le sabbie bionde dell’Africa. L’impeto e la fuggevolezza della “nuvola protagonista” tra sfumati tocchi di pennello en plein air – il giallo dei lampioni, il bianco delle colombe, la schiuma di Afrodite, le sabbie bionde dell’Africa – con un pizzico di esotico e di orientale – la cupola moresca – convocano già tutta la sensibilità della nostra poetessa e insieme il suo segno elegante come un arabesco che appunta sulla carta, in frammenti, lo sbocciare e il trascolorare rapido delle mozioni. La nuvola ne è quasi lo stigma, il destino stilistico. E c’è anche già l’abbozzo – o forse la sintesi – di una poetica.
Il libro di Keats sta in primo piano, non decorativo ma sostanziale. Il moto famoso dell’ “Urna greca”, bellezza è verità, verità è bellezza, è quintessenza d’ogni ricerca d’artista. Potremmo chiamarla “l’equazione della poesia” (da collocare accanto all’ “equazione della scienza”, come vedremo alla pagina seguente). Piera Mattei la condivide alla radice con i grandi romantici (prossimo a Keats c’è Shelley e, in Germania, altri illustri poeti-filosofi, Schiller e Schelling: quanto frusciare d’ali di rondini in questi cognomi!). Con costoro condivide anche la visione organicistica della natura, il panismo di fondo, per cui spirito e materia si compenetrano in una sola essenza vivente. Piera la chiama “la materia invisibile”. Così suona anche il titolo di una silloge precedente; dove con parole esplicite riassume il concetto: Materia invisibile – viva e inquieta nei nostri sensi – sono la bellezza nelle sue varie e misteriose forme, ritmi spaziali, suoni, colori, ricordi, l’eredità umana di quanti sono passati prima di noi e ne hanno lasciato testimonianza (cfr. La materia invisibile, Manni 2005, p. 107). Questa è la materia su cui si esercitano anche l’arte e la poesia. Ma neppure è visibile la materia che forma le nostre parole – continua Piera – orali o scritte che siano: che tuttavia si affannano a inseguire almeno i frammenti di quella verità profonda, destinata comunque a sfuggirci.
Alla stessa verità, con altre armi, razionali e anch’esse limitate, converge pure la scienza: che anch’essa ha la sua bellezza, la sua essenziale armonia. Così la equazione di Dirac (l’illustre fisico inglese che fissò in una formula i moti dell’elettrone): ora la si può ammirare “impressa sotto il palco dell’Aula Magna di San Domenico nel Centro Ettore Majorana di Erice”: La bellezza in questa sala / si slancia dall’equazione di Dirac // i segni a cui la mente guidò la mano / un disegno / essenziale nella raccolta penombra. (Dirac o della bellezza, p. 10). La poetessa ne intuisce la portata, ne intende soprattutto l’eleganza del segno, ma prosegue per la sua strada con le parole dell’arte, effimere e pur intense nel loro volo, portatrici di una tensione che è anche l’insonnia, la nevrosi, antica e moderna, l’ansia febbrile di penetrare il mistero.
Piera vi aggiunge le sue sottilissime antenne, il versante acuto, femminile dell’arte. Si è posto mente abbastanza a quella che è la grazia particolare della pennellata di Berthe Morisot, unica pittrice di rilievo nella varia famiglia degli impressionisti? O ala lucidità apollinea di Clara Wieck, oscurata forse più del giusto dalla visionarietà dionisiaca di suo marito Robert Schumann? Per non parlare delle folgorazioni della Dickinson, le cui pagine Piera ha spesso tradotte, o dell’occhio infallibile della Woolf, capace di descrivere in una pagina intera il rifrangersi di un raggio che filtra dalla persiana col suo danzante pulviscolo e accarezza gli oggetti della stanza…
A saperlo cos’è, il femminile dell’arte. In Piera è una percettività particolarmente duttile e acuminata, in grado di penetrare strato per strato, per così dire, nella sostanza delle cose, a coglierne l’immagine più profonda, al di là del senso, dove arrivano forse soltanto l’intuito e l’emotività; e con queste fibre comunicare con gli esseri che ci circondano, piante e animali, che non hanno parola. C’è un testo esemplare, in questo senso: Oleandri a p. 20. non vede – dice la nostra autrice – l’oleandro dalla finestra, lo vede nell’immagine della mente, e, in un gioco reiterato di echi e riflessi, ne vede l’ombra rosata che si offre a un gatto striato. E del gatto vede i pensieri, legge la aspirazione a occupare / più comodi spazi dentro la casa. A occupare dunque – e qui il cerchio si chiude – più spazio affettivo nella mia mente.
Ancora questa acutezza, agile e mobilissima, e più che mai adatta a carpire la mutevolezza, appunto, del reale, l’instabilità, la metamorfosi. In ciò, a intercettare le varie sfumature del mondo, uno strumento chiave certo deve essere il viaggio. E Piera viaggia spesso. Il viaggio moltiplica i punti di vista, arricchisce e dilata la sensibilità con sempre nuove voci, odori, colori. Il libro lo testimonia: a Erice, come a Naflio nell’Argolide, o a Agadir in Marocco, o a Duino, presso Trieste, sulle orme di Rilke. Ma le basta anche un viaggio in treno a Milano e ritorno. Oppure viaggia nei sogni, o nel tempo, ed evoca i propri ricordi, scommette su quelli degli altri. Risveglia, nella sua antica casa di via Giulia, i possibili abitatori che vi hanno respirato, almeno sette generazioni / di donne uomini / giovani e vecchi e bambini e non solo / perché dovettero convivere con molti insetti / e animali di compagnia. Con frizzante ironia, ma anche cavando dalla sua immaginaria ricognizione una austera moralità: che anche a me queste stanze / furono date in prestito (Abitatori, p. 66-67).
Nella Terza parte mette in altra cornice poesie delle raccolte: La finestra di Simenon, Zone ed. 1999 e Campione di pelle.
La Quarta parte consta di un’unica poesia, Il gufo (p. 117). Che acquista dunque un rilievo privilegiato, davvero memorabile. Un emblematico riverberarsi di luci: i fari della macchina suscitano d’improvviso gli occhi pieni di sguardo di questo abitatore dei boschi. E il gufo fissa a sua volta gli occhi della spettatrice: tutto il tempo che gli serve per imprimere in sé l’immagine di lei, e in lei l’immagine sua. Un muto gioco di specchi, allucinato nella sua concentrazione. Finché il rapace con grandi ali metalliche si solleva sul ramo dell’albero, e s’invola – lo sguardo largo / senza moto di palpebre. La scena si carica di una densa valenza metaforica: è così che la realtà si presenta nella sua disponibilità inaccessibile, eppure popolata di eventi che la parola del poeta, nella sua sospesa meraviglia, nel suo intatto stupore, a tratti disvela. Perché questo è in suo potere.