Piera Mattei, Melanconia animale

01-09-2008

Le bambine venute dal freddo, di Adele Cambria

Le bambine venute dal freddo. Non è esattamente questo – sarebbe stato forse troppo giornalistico per lei – il titolo del racconto che apre il nuovo libro di Piera Mattei, poeta di vocazione e narratrice che definirei «astrale». Infatti il titolo in questione suona così: Attraversamenti e deserti di gelo. Se non la conoscessi da molti anni, se non sapessi come scrive, immaginerei, insospettita, vacui mondi lunari, da fantascienza già antiquata. Invece no: per dirla rozzamente, il racconto – pur scritto con una perfezione preziosa di linguaggio – ti colpisce come un pugno allo stomaco. Incomincia dalla descrizione accurata di una patologia terrorizzante, che si chiama agorafobia, ma che ovviamente una poeta – quale Piera è – non chiama col suo nome clinico, se non per polverizzarlo. «Quel nome, agorafobia, non dice la paura di morire di solitudine, in mezzo alla folla. Vertigini dice di più. Sono avvitata, risucchiata nel terreno, mi disintegro dentro questo suolo senza forma, ridotta in granuli tra i granuli. Ogni parte del mio corpo ridotta in sabbia incolore, sparsa su questo tapis roulant che nella stazione di Chatelet mi porta (ma quando avrà fine?) dal metrò alla Rer: che mi condurrà all’aeroporto». Ma qui all’io narrante avvinghiato dal terrore, subentra l’occhio vigile e penetrante della cronista: e lei stessa se ne meraviglia: «Eppure, sebbene io sia tutta concentrata nel non lasciarmi afferrare dal deserto e dal vuoto, riesco ancora a vedere gli altri».
Cambia lo scenario, ed invece che nell’immensa Parigi, l’io narrante si ritrova a casa, a Roma, a Campo de’ Fiori. E qui avviene il coup de théatre: cercando di mostrarsi ospitale con Nancy, «la moglie di un latinista canadese in città per un anno», e con i suoi tre bambini che devono alla fontana della piazza, la protagonista del racconto si trova ad ascoltare le inquietanti confidenze di Nancy: «Mi sta dicendo: “le bambine non si somigliano molto tra loro, perché non sono veramente gemelle, anche se sono nate insieme. Volevamo un figlio. Così siamo ricorsi all’inseminazione artificiale. Sai come avviene, si procede su tre ovuli. Un ovulo è stato scelto e trapiantato ed è nato il nostro Luc, e così noi eravamo felici. Dopo tre anni, io non ci pensavo più, si può dire che me ne fossi dimenticata, ci chiamano dalla clinica per sapere che cosa avevamo deciso per gli altri due ovuli fecondati, che erano rimasti in frigorifero. Io non volevo tre figli. Ne volevo uno. Però dovevamo decidere… Non pensavo che fosse così difficile, e anche ora non sono sicura di non essermi sbagliata”».
E qui sgorga la compassione dell’io narrante… Rivolta alle bambine venute dal freddo. «Per tre anni quell’attesa solitaria, il nulla, il freddo potente contro il rischio che la vita si risvegli. Quella vita che oggi, in grembiulini a fiori – ancora non imparano a parlare – si muove con una certa timida consapevolezza sulla piazza invasa dal sole, quale memoria conserva di quei tre anni? Uscite dall’attesa del limbo, saltellano ora sul Campo. Penso di conoscere il loro ricordo di quel tempo. So che avvertono ancora quella solitudine gelida, il tempo vissuto senza sentire calde pareti attorno. Col rischio di non esistere, di restare sul limite, anche ora che si muovono nell’organizzata architettura del mondo».