Il narrare mercuriale, ellittico di Piera Mattei, di Luigi Celi
L'ultimo libro di racconti di Piera Mattei, Melanconia animale (Manni 2008), ha stile, frontale, chiaro, preciso, efficace. C’è però un al di là, un diverso livello: le polisemie allegoriche della fabula producono uno snodo semantico – senso/non-senso – tra pieni perspicui d’immediata evidenza e affacci inquietanti sul vuoto metafisico. Tale è forse anche la valenza della sottesa citazione leopardiana nel racconto Il bel meticcio: Davanti alla natura, a un paesaggio, gli individui sensibili si pongono in relazione con l’infinito, dolcemente sommersi nel naufragio. Coscienza di esserci e terrore, di quando – prima – non c’erano. Che prefigura il tempo in cui non ci saranno più (p. 79), una sorta di “memento homo”, memoriale dell’insensato nulla da cui proveniamo e a cui saremo restituiti dalla morte? Eppure l'autrice sembra rimanere irretita dall’efficacia e dalla bellezza della sua stessa macchina compositiva; si stupisce come per un’opera che si sia prodotta per partenogenesi, si sorprende come per un dono ricevuto del carattere stagionale e primaverile del racconto: La visione virente, sacrale e perciò stagionale, primaverile della scrittura è quanto m’incanta[…]. Quindi sullo schermo ho visto nascere e crescere, nuovamente freschi e completamente nuovi, osservazioni e ricordi” (p. 99). Piera si diverte, quando vede/ascolta i suoi personaggi entrare in scena in cerca d’autore. Qualcuno affonda il coltello della verità nelle costole dei lettori, il racconto Il Gibbone, ma anche Il bel Meticcio, oppure Un’invenzione pedagogica, appaiono sufficientemente crudeli per configurare il grottesco dell’esistenza. L’ironico, il grottesco, il tragico implicano sempre un superamento del limite. La pulizia sintattica e terminologica della Mattei ha matrice classica ma spirito romantico: contraddizione solo apparente se si pensa che la grande letteratura romantica, di Goethe, Novalis, Hölderlin, nasce proprio dall'integrazione in progress dell'elemento passionale degli sturmer con i canoni razionalistici e classicistici di misura, compostezza, equilibrio. Operazione che si attuò attraverso i fermenti post-neoclassici innestati dagli scritti di J. Winckelmann. Il desiderare, il tendere metafisico (la sehnsucht), anche con ironica presa d’atto del relativo e del limite, fornirono linfa filosofica e ispirazione letteraria a quell’infinito processo del vivere, del conoscere e dell’agire, che divenne peculiarità del romanticismo e dell'idealismo.
Nelle fabulae della Mattei, l'animale – sulla base di nobili antecedenti letterari, che vanno da G. Orwell, a Th. Mann, a Kafka – funge da grimaldello allegorico per scardinare luoghi comuni e mettere in rilievo un diverso pensiero, diverso rispetto all'identitario conformismo delle convenzioni culturali. I racconti pongono in luce o in moto, in complessi giochi di specchi e di rimandi, rappresentazioni di realtà e di pensiero e predeterminazioni dell'inconscio personale e transpersonale di chi scrive. Ci si può chiedere in-persona-di-chi si pensa, ci si espone, si scrive. Chi scrive in persona lo fa dentro e dietro una maschera umana o animale. I personaggi sono sospinti da un vento che viene da lontano, qualcuno direbbe con Jung da archetipi transpersonali. La Mattei dà voce al motivo della malinconia, come "vapore che emana da umani sospiri (. . . ) in tutto l'universo, ma specialmente sopra le città" (p. 80), per coinvolgere uomini e bestie. Addomesticare gli animali – dice – significa "attrarli nella sfera della malinconia, commisurarli ai tempi e alle prospettive della coscienza umana. Assimilarli alla consapevolezza del limite" (ivi). Il tema della malinconia si congiunge ad un'acuta sensibilità naturale e sociale, tra identificazioni simbiotiche e proiezioni, in meccanismi di contrasto, consce limitazioni e inconsce rotture, consapevoli conati d’integrazione dell’animale nel mondo umano e istintive dismissioni e rotture dei limiti. Una scrittura che teatralizza, fa parodia e innesca modalità di recitazione in maschera a metà tra lo stile a immedesimazione di Stanislavskij e quello più distaccato ed ironico di Brecht. Coro e voce dell'archetipo, va verso la lenta, progressiva individuazione/emersione dei singoli personaggi/attori, uomini e bestie; coniuga le varianti biopsichiche della sofferenza, trova i suoi cardini nell'angoscia antropologica di morte, nella drammatica metafisica coscienza dell’impermanenza degli enti, in euristica, dinamica presa d'atto e sentimento universale di pietas per il dolore e la violenza planetari quasi istituzionalizzati: violenza ventriloqua (p. 82) quella emblematica del cane, che si lamenta e piange con una lama di dolore che lacerava l'aria (p. 81). Un pianto, quello sì, sproporzionato, assoluto, inutile, ma anticipazione del silenzio, di una piccola bolla in esplosione (p. 82).
Come definire ciò soltanto malinconia?
La malinconia è triste sentimento dell’abulia, dell’astenia e della depressione psichica; come categoria alchemica, invece, è alla base della trasformazione non solo dei metalli in oro, ma del passaggio dalla nigredo all'albedo, da intendersi in senso psicologico e spirituale. Apparirebbe ben più tragico il testo e il contesto se non si prendesse via via coscienza del gusto alchemico e teatrico del suo modo di fare letteratura. Tale appare il mondo: una grande scena sulla quale a volte urlano, altre volte mostrano la loro malinconica rassegnazione i corpi animali ed animati, ed è come se si pietrificasse il magma dell'esistere in un'unica smorfia di dolore quando il corpo ci trasforma in coscienza. Questi racconti, dal punto di vista linguistico/formale, hanno il pregio dell’essenzialità che cattura. Il gusto lieve e distaccato del racconto ci fa riflettere senza offenderci e gravarci, la scrittura è antitelevisiva, non incrudelisce inutilmente con grevi cronache e insistenti notiziari a sadica amplificazione del reale. L'operazione della Mattei ha valore filosofico/letterario, per quanto si nutra di realtà e di storia. Si assume la diacronia di un narrare mercuriale, ellittico, che attinge in parte esiti kafkiani, per quanto in andamento meno simbolico di quanto non faccia lo scrittore praghese.
Il libro ha un’acuta postfazione di Cristina Annino. Annino celebra, con questo libro, l'irruzione della "passione" nell'intera opera della Mattei. L'occhio e lo sguardo sono posti al centro, eppure al reale - dice la Annino - viene restituita la propria realtà, e tutto torna in tal senso, a un ordine condivisibile con le cose. Si passa dall'eversività, intransigenza o pura fantasia, a pathos come intervento, interesse e coinvolgimento del lettore con l'artista (p. 102). Mi sento di condividere molte delle note argomentate dalla Annino. La riconquista del reale aggiungerei però, più che un fatto, è il luogo di un diverso procedere, è modalità che trascende il realismo, quale si dà nel quasi realista Hopper, come nel bel racconto Come in un quadro di Hopper dal sottotitolo La sposa bella (p. 12), dove l’elaborazione affabulante si rende insieme scrittura e pittura (la Mattei è anche lei pittrice) in libero gioco d'immaginazione creativa, approfondimento di realtà e scavo psicologico dell’esperienza. Se ciò che scrivi e immagini è vero sulla pagina – scrive Mattei, a p. 74 – un bel giorno ti capiterà d'incontrarlo. Nulla di oggettivo, e per converso, anche, di soggettivo, d'immaginario, si dà mai del tutto; ogni rapporto con il reale è sempre affermato e negato in vista di una più problematica sintesi. L'aspetto iconico/pittorico, è da ricercare nella reversibilità speculare della visione, per cui l'occhio/sguardo guarda ed è guardato, il guardare all'oggetto tende a coincidere con il guardare al soggetto, una distinzione senza soppressione di uno dei due termini. La Mattei ci mostra per quante e quali vie noi ritroviamo nell'animale e perfino nelle piante l'analogia dell'umano, il suo doppio insieme grottesco e naturale. La realtà di cui si parla è specchiante come il Gibbone dell'omonimo racconto di p. 91: Lo guardo e mi guarda.
Il carattere aporetico di questa procedura "doppia" crea spesso una sorta di sospensione o di kantiano "godimento disinteressato", quanto basta per ottenere un piacere esteticamente "libero", sia pure per qualche istante. Questo non volere, o mai pretendere d’afferrare l'essenza delle cose s-vela, da un altro punto di vista, ciò che l'autore fa argomentare al suo alter ego nel racconto Sguardi incidenti, cioè il limite di certa letteratura orientale. Limite emblematico, quindi anche occidentale, questo, se è un parlare a nuora perché suocera intenda,: "in Giappone agli inizi del secolo scorso tutto un filone di narrativa si basava su eventi non solo raccontati in prima persona ma effettivamente sofferti sulla propria pelle, e quanto più tremendi e tragici, tanto più apprezzati. Volevano essere non verosimili, ma veri[…]. Ma scrivere è diverso
[.. .]. . La ‘verità’, mi chiedo, riesce a compensare la carenza di intreccio, di storia. Quanto effettivamente vediamo e i discorsi che direttamente ascoltiamo, possono mai essere altrettanto interessanti degli intrecci che l'immaginazione inventa?" (p. 19).
Nella Mattei c'è grande capacità di rapportare pieni e vuoti. Il vuoto, più che un espediente, rappresenta una grande risorsa nelle articolazioni della sua scrittura letteraria. Sembra mirare a un libro "la cui misura" sia "il frammento": si riproduce il carattere franto dell'esistenza alienata dell'uomo contemporaneo nella società di massa, e – come acutamente nota la Annino – si tratta, anche, di un riecheggiamento del pensiero presocratico. Predilige, come scriveva Barthes frasi giuste piuttosto che belle. Racconta ed elabora – lo diciamo con le parole dello strutturalista francese, citate dalla nostra autrice – mille incidenti vietandosi di ricavarne una linea di senso (p. 30). Direi una linea univoca di senso, perché il "senso" sempre si impone allo scrittore, al pittore, all’artista, anche suo malgrado. E’ come se nello scrivere, disegnare, dipingere a caso, nell’aggregare storie, fabulae, parole, linee, forme, componendo e scomponendo colori, emergano strutture, ritmi e immagini, sempre in autonomia ed automatismo. Già l’aveva notato Leibnitz e la cosa divenne ancor più esplicita, anche nella pratica pittorica e letteraria, con il surrealismo.
In questi racconti, a volte, il pessimismo critico sembra accendere qualche barlume alla speranza, perfino alla trascendenza, come si può evincere da ciò che scrive in quello che, per me, è il più bel racconto del libro, Il Tatuaggio. Dedicato alla relazione vita/morte, all’incontro con l’angelo della morte, il testo si svolge con levità erotica, in contrappunto di eros e thanatos, con qualche intonazione di grottesco. L’esistenza della protagonista del racconto va verso il suo tragico crinale, ma come procedendo su un doppio binario, dall’interno del racconto, l’autrice pare quasi voler addolcire o invertire non la direzione di rotta, ma il significato dell’inevitabile fine, se è vero che l'angelo di per sé (simbolicamente) comporta una speranza di oltranza.
Con le parole del racconto Sitges o delle preferenze l'autore indaga anche una terza via, suggerita dalla cultura orientale.
Il vuoto è la conditio sine qua non del movimento della scrittura, che oscilla tra una brevità, percepita come eccessiva – addirittura, in alcuni casi, come espressione di "avarizia" – e le logorroiche lungaggini che annullano ogni silenzio e possibilità di una parola efficace da dire e da udire. La Mattei sostiene ciò in opposizione a certi autori di haiku occidentali, che usano e abusano della brevità, quale astuzia, slogan, superficialità e avarizia, e in antitesi alla logorrea di altri, che copre e annulla ogni pausa di silenzio (p. 50).
Il vuoto lascerebbe aperto uno spazio indefinito, altrettanto importante del pieno. Se vogliamo, il pieno di quei contenuti – che agiscono, anche, come la sostanza della scrittura – è reso discreto dal vuoto, e per quel vuoto, il pieno si pone in divenire, si fa domanda e ricerca. Si possono invertire i termini e vedere il vuoto d’ “interminati spazi” e d’"infinito silenzio" come un prius leopardiano, ma “Lo spazio ti appare - dice la Mattei - infinito e vuoto. In realtà quello spazio solo a te sembra vuoto e infinito, ci sono dappertutto segnali che indicano direzioni diverse, basta sapere dove andare" (p. 2). Si potrebbe intendere ciò, dunque, quasi come un’attenuazione di quanto già detto in avvio, in quella che per noi è una citazione più o meno velata dell’Infinito di Leopardi (p. 79).
Il dichiarato amore dell'autrice per Leopardi, può autorizzarci a sostenere che il recanatese rappresenti una cerniera tra la cultura occidentale e la sua ombra, da rintracciarsi in prevalenza in quella deriva nihilista del moderno e del postmoderno, che Nietzsche preconizza (l'opera della Mattei se ne fa carico in maniera sguincia, trasversale) e che la cultura orientale potrebbe aiutarci, invece, a ribaltare di nuovo, restituendoci il rapporto con il vuoto e con il nulla in forme, forse, meno inquietanti e dissolutive. E’ un’affermazione e una domanda, la nostra, con le quali intendiamo chiudere questo testo, sulla suggestione degli interessi della Mattei per la cultura orientale, i suoi soggiorni in Giappone, i viaggi in Cina e ultimamente in Corea, a cui anche in questi racconti si fa riferimento.