Non è un romanzo, come lo definisce l’editore, almeno nel senso tradizionale. E nemmeno un plot per il “film anarchico e impopolare” che dà il titolo al libro. Se proprio dobbiamo azzardare una definizione, è un viaggio letterario, tumultuoso e irregolare, alla ricerca delle proprie radici e del senso profondo di una terra perduta: “Il mio viaggio di ritorno – scrive nella terza scena l’autore – come Ulisse nella sua terra. Ulisse che torna nella sua terra a far secchi i Proci. Ecco cos’è questo film nella terra dei santi proci e dei lupi mannari”. Ovvero l’Irpinia, “terra dei lupi e dei santi”, come recita il sottotitolo del libro di Piero Cipriano da poco pubblicato nel catalogo di Manni, uno dei più coraggiosi e colti editori italiani.
Dall’area più interna di questa terra, al confine tra Baronia ed Alta Irpinia (Vallata?), Cipriano è partito, come tanti, alla volta di una metropoli (Roma), dove si realizza come psichiatra anticonformista e regista “felice e sconosciuto”, parafrasando Garcia Marquez, di cortometraggi apprezzati nei festival e nei circuiti alternativi. E dell’Irpinia, come tutti gli emigrati, di successo o meno, conserva un sentimento ambivalente, ma insopprimibile, di repulsione e nostalgia. Tanto che, nel ’99, decide di percorrerla coast to coast, da Montevergine fino a Calitri e poi verso l’Adriatico, a san Giovanni Rotondo, sulle orme del culto – per lui primitivo ed arcano – di “Padreppio”, per girarvi “il film della vita”. Salvo poi scoprire che il magmatico universo antropologico della provincia di Avellino è troppo variegato e complesso per essere racchiuso persino in un lungometraggio, figurarsi in un film come lo aveva immaginato lui: anarchico e, in quanto “antagonista”, sicuramente impopolare: “Sono sceso senza un’idea, siamo sinceri. Con mezza idea di fare un film qui. Per il resto non so come. Ho solo capito che devo iniziare a riprendere. Poi, le immagini girate tireranno fuori reminiscenze dal mio cervello annebbiato. Fai come vuoi basta che sia un buon film. Ma io non voglio fare un buon film, quelli sono capaci tutti a farlo. I nuovi registi hai voglia quanti buoni film saprebbero fare. Ma un film bombarolo, come questo, nessuno è capace a farlo”, confessa nel libro.
Già prima del ciak, durante i sopralluoghi, si accorge che la sceneggiatura va continuamente rimodulata: “Film di un pazzo lo intitolo. Le mie visioni” (scrive a pag. 34). “Film antidemocristiano lo intitolo. Anzi, film contro i cristiani” (pag. 41). “Film processionario, si intitolerà” (43). “Il film anarchico, ateo e blasfemo avanza come una locomotiva. Come la fiaccola dell’anarchia. Siamo solo agli inizi” (pag. 60). Fino a che al Cipriano regista (formatosi sui film di Buñuel, pasolini, del brasiliano Rocha e sulle canzoni di Ciampi, De Andrè, Claudio Lolli) non resta che trasmettere l’immensa mole di materiali e sensazioni al Cipriano scrittore, che impiegherà un decennio – come Ulisse – per raccontare la sua “Itaca irpina”.
In questo libro, del resto, non c’è nulla di rassicurante e lineare. Al contrario: tutto è eccessivo, sanguigno, imprevedibile, spesso volutamente provocatorio e greve. E in tutte le venti scene del film “anarchico” si ritrovano affastellati ricordi d’infanzia e lacerti etnografici, magiche suggestioni e cronache dei nostri tempi, come le lotte e il concerto contro la discarica sul Formicoso o il “Premio Sergio Leone” a Torella.
Ma se Cipriano si richiama a Ulisse (a differenza dei suoi conterranei che, afferma, preferiscono riconoscersi in Achille o in un Priapo), chi sono i “Proci” che dell’Alta Irpinia hanno fatto strame? Cacciafumo/Ulisse li enumera in una esplicita dedica, alla maniera di una ballata popolare, a metà del libro: i maggiorenti della Democrazia Cristiana locale, prima di tutto (“Padre Ciriaco”, “Padre Gerardo” ecc.), e i preti ipocriti e corrotti, gli uni e gli altri responsabili – con la superstizione e il clientelismo – della regressione dei fieri uomini/lupo d’Irpinia a “popolo ovino” (pag. 50).
La sua furia iconoclasta non risparmia neanche altri miti di ieri (Carlo Gesualdo) e di oggi (Gianni Minà, fra gli altri), e una più sottile ironia investe persino due cantori dell’”Irpinia d’Oriente” (lo “stralunato cantante” Vinicio Capossela e Franco Arminio, “un poeta che fa la psicoterapia ai paesi”) ai quali in realtà il libro di Cipriano, consapevolmente o meno, appare debitore di qualche suggestione letteraria e di una certa atmosfera mitografica, accomunato com’è al cantautore e al poeta da quella vena anarcoide ed egualitaria che ha radici profonde nella koinè dell’Alta Irpinia.
Tant’è che il Ballo di San Vito di Capossela diventerà nel libro la canzone di coda di questo film “anarchico”, nella realtà mai realizzato ma che nella finzione narrativa, grazie alla sua spiccata capacità visionaria, il Cipriano scrittore immagina di presentare in prima nazionale in una sala cult del cinema di nicchia, l’Azzurro Scipioni di Roma, diretto da Silvano Agosti (altro nume tutelare nella vita reale del Cipriano regista, che nel libro lo evoca con ammirazione e affettuosa ironia).
Un happy end divertente e un po’ sgangherato, in cui Cacciafumo/Cipriano, che per lunghi tratti del libro ha descritto la sua “Itaca irpina” con toni dell’invettiva, porta finalmente alla luce il suo amore profondo per la terra nativa, ringraziando nei titoli di coda “la verde Irpinia e la sua gente per aver ispirato questo film”. Ma attenzione, si tratta di una riconciliazione “con riserva”, e solo con l’Irpinia più laica e onesta: “Il film è dedicato – leggeranno gli spettatori plaudenti dell’Azzuro Scipioni – a tutti coloro che hanno vissuto e vivono nell’estrema Irpinia e hanno creduto e credono di avere il diritto a vivere senza fare ricorso ai santi”.
In quest’Irpinia così, terra di pecore e di ciambellani, il vulcanico esordio narrativo dell’oriundo indignato Piero Cipriano è un salutare pugno nell’occhio. Peccato che a scoprirlo siano stati “Il Resto del Carlino” e altre testate nazionali, mentre in Irpinia nessuno, a quanto sappiamo, lo ha finora recensito o presentato…