Il libretto rosso di Manni, di Elisabetta Liguori
È un libretto rosso, pieno di calore quello di Piero Manni.
Mi riferisco alla nuova pubblicazione della casa editrice Manni per la collana I Chicchi. Da leggere sicuramente. La prima cosa che mi sono chiesta ritrovandomela tra le mani è stata: ma Piero Manni è uno scrittore? Perché io, come tanti, so molte cose di lui: lo conosco come editore, come generatore di talenti, amante del territorio e di tutto il suo patrimonio in ampio senso, uomo impegnato anche in politica, intellettuale attivo, instancabile, ironico ed efficace, ma cosa fa di lui uno scrittore? Non che questa sia la sua prima prova: ci sono state altre esperienze e sempre cara è stata per lui la forma del racconto, eppure io me lo sono chiesto comunque.
Me lo sono chiesto ancora prima di leggere i suoi racconti, è vero, ma ho tentato di trovare una risposta solo dopo la lettura. Sarà che da mesi faccio a me stessa la stessa domanda, sarà che da mesi mi chiedo che cosa rende diversa scrittura da scrittura, sarà che ho preso l’abitudine un po’maniacale di distinguere tra libro e libro e di mettere un punto esclamativo soltanto sulla copertina di quelli che mi sembrano scritti da scrittori veri, per imparare qualcosa in più su questo strambo mestiere; sarà che la scrittura contenuta in questo libretto rosso io l’ho assaporata in un soffio e poi mi sono sentita bene, sarà questo o altro, fatto sta che io a questa domanda ci tengo.
Preliminarmente è però opportuno raccontare questo libretto rosso di Piero Manni, in poche parole, per non togliere a nessuno il piacere della lettura. Si tratta di tre brevi racconti: tre esperienze di verità dal passato, tre diverse memorie di campagne profumate, ronzanti d’api amichevoli, lavoro sudato, vecchi alberi, uova fresche e preti pretenziosi, tre immagini di mondi veri, circoscritti tra le virgolette del cuore.
Questa sintesi può aiutare a rispondere alla mia antica urgente domanda?
Forse sì, forse no. Sarebbe ancor più utile munarsi forse di qualche criterio di riferimento, di qualche misura, indice o parametro, anche incerto? Qualche giorno fa, proprio a questo proposito, leggevo un piccolo saggio di Giulio Mozzi, scaricabile gratuitamente in rete, dal titolo – “(Non) un corso di scrittura creativa”-. Un ausilio per lettori e scrittori dubbiosi come me. Un testo agile, umile, ben organizzato e realistico. Grazie a questo manualetto ho potuto dare forma a molti dei miei fantasmi, in particolare ad uno. Quale è la prima cosa che fa un vero scrittore quando si accinge a scrivere? Per Mozzi la risposta è: immaginare il lettore.
Mi sembra una bella risposta. Questo lettore immaginato altro non è che la proiezione sincera, onesta, di un desiderio. Un desiderio integrale. Bene: mi pare di poter dire dunque che Piero Manni abbia immaginato il suo lettore con maestria, gli sia andato incontro, lo abbia guardato dritto negli occhi, abbia cercato quella empatia necessaria a che il miracolo della letteratura si compia, abbia cercato cioè di condividere qualcosa con lui (desiderio e memoria) cercando di rassomigliarli, di ritrovare e scoprire ciò che è comune, autentico, e costituendo quel legame che nasce solo dalla condivisione. Per fare questo mestiere lo scrittore non deve solo esprimersi, vomitare il sé, dice Mozzi, ma deve mettersi in relazione, trasferire il suo mondo, la sua immaginazione, all’interno di mondi condivisi; deve creare meccanismi di fiducia, di innamoramento direi quasi, che gli consentano di portare il lettore con sé nel proprio universo e con lui osservare ciò che è fuori e ciò che fuori cambia di continuo.
Gli anni dei quali scrive Piero Manni, così, possiamo sentirli come nostri (anche senza averli vissuti), scoprendoli attraverso dettagli personali, e pertanto unici per atmosfere, personaggi, colori. Possiamo farlo con fiducia, con abbandono. La trama conta poco, così come la cronologia degli eventi (e si sa che lo scrittore vero può fare con le unità di tempo e luogo quello che vuole): quello che fa di questa scrittura piacere puro è la mimesi, lo stile malinconico, sognante, cinematograficamente ancorato al vero, la profondità rassicurante, raggiunta anche con pochi tratti.
Mozzi, ancora lui, dice che la pratica delle scrittura (senza alcuna ambizione di scientificità, sia chiaro) la si potrebbe ridurre schematicamente a tre parti essenziali: tecnica, genio e consapevolezza.
Sul genio c’è ben poco da dire, o c’è o non c’è, quello è come un occhio e una voce che lavorano da sé e, in testi brevi come questi di Piero Manni, lo si rintraccia nello sguardo sempre frizzante, rapidissimo, nella scelta della formula linguistica più ispirata, che riesce a raccontare i piccoli, infiniti, guizzi del cuore.
La tecnica, poi, volendo la si apprende e beato chi c’è l’ha, ché del genio può fare un tesoro ancor più grande.
La consapevolezza invece è altra storia.
La consapevolezza è il calore. È il desiderio. La consapevolezza è dei maestri: appartiene appunto a chi sa che la scrittura è prima di ogni altra cosa un’attività relazionale e richiede la grande capacità di osservare il mondo. Ecco: questa consapevolezza mi sembra davvero una gran bella conquista e, ora che lo so, posso ben mettere il mio punto esclamativo sulla copertina rossa che raccoglie i tre racconti di Piero Manni.