Piero Manni, scrittore ed editore politicamente impegnato, è uno dei pochi che continua tenacemente a credere nella funzione civile della letteratura.
Dopo aver dato prova della qualità della sua scrittura con i racconti di Salento Salento, uscito nel 2000, e con qualche altro testo pubblicato su “l’immaginazione”, eccolo nuovamente alle prese con la narrativa. Nella minuscola e allettante collana dei “chicchi” della sua stessa casa editrice ha appena visto la luce Il prete grasso (pp. 30, euro 5), che raccoglie tre brevi sue “chicche”.
La trilogia ha la stessa disposizione strutturale dei trittici medioevali: le due prose laterali sono più contenute rispetto a quella centrale. A rimarcare la distinzione provvede lo stile, sapientemente modulato su accordi diversi.
Il tema caro a Manni rimane la civiltà contadina salentina, rivissuta ora con toni fiabeschi (primo e ultimo brano, rispettivamente Carezzavo le api e Il carrubo), ora con accentuato realismo (Il prete grasso).
In tutte e tre queste schegge narrative c’è un io-narrante che riannoda i fili della memoria e ricostruisce interni e personaggi familiari, ambienti e paesaggi che riemergono dal fondo dei ricordi infantili con la freschezza del presente. Sono dei flash che emanano calore e attrazione sentimentale, oltre che creativa. Emozioni che lo scrittore recupera attraverso una coinvolgente operazione di scavo psicologico e antropologico nella comunità contadina del Salento anni Cinquanta.
La galleria dei personaggi familiari sfila davanti ai nostri occhi come un trailer di color seppia, più che bianco e nero. È la scrittura di Manni che riesce a contornare di pathos minuscoli eventi quotidiani di un’epopea contadina, stagliando quegli umili eroi in una dimensione leggendaria.
Particolarmente impegnativa è la struttura del racconto centrale che presta il titolo al prezioso libretto. L’aderenza al tema della controversa religiosità contadina salentina è rimarcata dall’uso di una filastrocca dialettale (recupero assai caro allo scrittore) che inframmezza la narrazione e ne scandisce tempi e sequenze. Al centro si staglia Tata Mimmi: «un vecchio contadino alto e robusto, con la faccia cotta e le rughe fitte fitte che gli ricamavano il viso fino alla fronte alta». Come tutti i contadini, egli ha un rapporto conflittuale con i preti e con la religione, a tal punto che, sul letto di morte, dopo l’estrema unzione e prima di esalare l’ultimo respiro, ha l’ardire di pronunciare un “vaffanculu” al prete.
L’anticlericalismo viscerale dei cafoni meridionali non ha solo una giustificazione politica (aspetto su cui lo scrittore sfodera la sua più acuminata ironia). Non tolleravano la complicità dei preti con i “cappelli” del circolo cittadino (si ricordi la novella Libertà di Verga), la loro corruzione morale (concubinaggio, usura), la loro connivenza con il potere. Altro rispetto, infatti, essi manifestavano verso i santi, onorati in ogni circostanza, nelle feste patronali come nelle fiere. «Nel Salento – scrive Manni – i santi si guadagnavano il pane», proteggendo i raccolti, gli ammalati, le tarantolate.
Attraverso una scrittura affabulante (lontana dall’arditezza sperimentale dei racconti precedenti) Piero Manni ci consegna un partecipato e accorato affresco corale di una civiltà moribonda che non finisce mai di interrogare le nostre coscienze. Neppure nell’era del postmoderno, che s’illude di averla seppellita per sempre. E lo fa senza nostalgia, con il coraggio civile di un testimone vigile e consapevole delle trasformazioni e delle degenerazioni degli ultimi decenni, che hanno condannato al rogo anche l’anima di quella civiltà povera ma dignitosa, che ha saputo preservare l’eredità millenaria del senso umano e sacro della vita.