Quelle «cape guastate» una poesia dell’umano, di Alberto Selvaggi
Falliti: tanti. Esponenti della manovalanza delinquenziale. Abbastanza. Marginali poveri in canna tutti quanti finiscono aggrumati, auspice un prete savio, in una cooperativa di pulizie barivecchiana, ramazze agognanti, bidoni issati come trofei maleodoranti.
Questa, in due pennellate, la sostanza di Cape guastate, primo romanzo di Piero Rossi, giurista cooperante. Scene, toponimi ex detenuti, tipi umani richiamano, trasfigurati, l’esperienza che lo stesso autore, auspice don Nicola Bonerba il grande, ha maturato come presidente della cooperativa sociale Vita Nuova di Bari. Un’odissea dove agli eroi, ai monocoli, alle ninfe, alle celestiali deità pagane stanno delinquenti falliti, pilateschi funzionari, virago rusticane, il vil denaro. Una fiumana di palpiti bassi che scorre lungo il letto del riscatto sociale che non è che umano, troppo umano.
Nessuno avrebbe potuto intrecciare la materia di questi disgraziati con tale sorridente e agra obiettività se non chi, come Rossi, barese con casa a Conversano, da decenni la mastica. Presidente di Confcooperative della provincia di Bari, avvocato specialista in diritto minorile, criminologo clinico, il che nella fattispecie non guasta, ha infuso di letterarietà il bagaglio di esperienze che porta in spalla. Ed è questo il motivo per cui da quest’opera s i impara.
È la resurrezione del romanzo sociale, dove tutto è vero anche se tutto è probabile. In Cape guastate il linguaggio si districa in stridente comicità fra resoconti burocratici e traduzioni vernacolari, pensosi sunti da addetti ai lavori e cronache dei fatti veraci: il progetto della cooperativa e la sua anarcoide messa in marcia, la teoria e la pratica. Rossi pesca a piene mani dallo slang locale, ora sofisticato in declinazioni intelligibili, ora spiattellato vivo e tradotto a piè pagina. La narrazione si svolge dalla Città Vecchia come una densa matassa e le scene si intarsiano tra i coni grigi e i barlumi dei tragicomici quadri.
Si ride per non piangere fra le cape guastate, degnamente rappresentate in copertina dall’attore, mimo, clown Renato Curci con birra in mano. Tutte vogliono il «Cambiamento», nome con cui la multiservizi viene varata. Don Mimmo, parroco di campagna da periferia urbana, e il Virgilio della masnada e paciere per la fratellanza: «la gente del posto» («altrimenti detta beneficiari»), Vito «Popizza» e Vincenzo «Mezzabbòtte», «Ciccille u russe» e Giovanni «’ U bellfatte», Rita moglie ripudiata, Giulia col marito in gabbia, le altre pecorelle sono stanche, più che pentite, di allungare la loro fedina pensale senza cavarci neppure un’esistenza agiata. E da un summit in sagrestia incomincia la traversata, dalla miseria alla «vita cristiana».
Il figlio del boss incarcerato, i clan, il sindaco Toscano che suona Michele Emiliano, case di boss all’odor di cavolo, «’ U presdè» avvocato in autoritratto, la cattiveria sedimentata «attraverso generazioni inguaiate», tutto è delineato con tratti esaustivi, senza perdono e senza biasimo.
Motorini, impennate, codice criminale, pasta alla carbonara, bidet scambiati per vasi da prezzemolo, il pronto soccorso ingolfato, la religiosità come superstizione ancestrale, le pressioni della mala per la selezione dei candidati alla riabilitazione sono sociale, la dimostrazione a Palazzo di Città, dopo che i soci, bollati come «scansafatiche» sui giornali, si vedono sull’orlo del naufragio. Tutto quanto è stato, è e nella vita sarà.
È la poetica sghemba dei poveracci. Bene che se ne parli. Bene che Piero Rossi prosegua, come ha intenzione di fare, su una strada sulla quale più nessuno o quasi si avventurava.