La filosofessa italiana, il romanzo moderno del letterato gesuita che avversava Goldoni
Articolo primo, di Pietro Chiari
Io scrivo le mie avventure per mio solo divertimento. Non cerco, come altre donne del mio secolo, la bella gloria di farmi immortale da me medesima colle pubbliche stampe. In una età più feconda di lettere, che di Letterati, in cui per istampare molti Volumi basta saperli scrivere, io credo, che l’intenda meglio degli altri, chi si diverte delle altrui debolezze, in vece di divertir altrui colle sue. Se qualche vantaggio io desidero da questa fatica mia, quello si è unicamente d’istruire mia figlia. Negli animi teneri della Gioventù sopra tutte le massime della più soda filosofia ebbe sempre forza l’esempio; e tra tutti gli esempj presso una figliuola ben nata, quello prevaler dee della Madre. Passando queste vicende mie, scritte di mia propria mano, sotto degli occhi suoi, le terranno luogo d’una continua istruzione; e se da queste imparerà ella a vivere in un Mondo pieno d’inganni, dove non s’impara a vivere, se non quando si muore, io potrò gloriarmi meco medesima d’aver fatto assai.
Non è perciò che queste memorie della mia vita siano per essere o nojose, o disutili a chiunque altro avesse la curiosità, o l’incontro di leggerle. Ogni Sesso, ogni professione, ogni età può trovar che imparare da una persona non affatto sprovista d’intendimento, e di senno, che ha girata la miglior parte del mondo; che sulla gran scena di questo mondo ha rappresentate differenti figure; che trattò alla domestica con gente d’ogni nazione, d’ogni carattere, d’ogni mestiere; e quasi tutte ha sofferte le vicende più memorabili della fortuna. Nel momento che io scrivo mi trovo contentissima di quanto ho imparato vivendo. Non è dunque lontano dal verisimile, che più d’uno si troverà del pari contento di quanto avrà imparato leggendo. In tutte le mie disgrazie non ho trovato miglior sostegno, che quello d’una soda rigorosa virtù. Ho veduto per esperienza, che vane bene spesso riescono tutte le precauzioni dell’umana prudenza; che ad onta sua molto opera il caso; che sopra di lei il più delle volte trionfa la perfidia, e l’inganno; ma ho veduto altresì, che nulla può tutto questo contro le massime d’una vera filosofia; e che felice può essere nelle disgrazie medesime, chi tenendosi a’ soli dettami della ragione e della virtù, cerca la felicità sua dentro sé stesso. Se la gioventù vogliosa cottanto di leggere i casi altrui non imparasse altro che questo da’ miei, anche per ciò solamente non avrò gettato scrivendo inutilmente il mio tempo.
Qualunque sia l’esito di questa mia impresa per insegnar altrui con diletto non ho bisogno di fingere. La mia vita è un intreccio continuo di stravaganze, le quali se non fossero accadute a me, parerebbero a me stessa incredibili. Quanti hanno parte in queste memorie ponno farmi fede se io scriva il vero; e quantunque io non parli di loro col vero lor nome per mille buoni riguardi di onestà, e d’amicizia, se avranno la pazienza di leggerle, conosceranno subito chi son io; e confesseranno, che sono sincera. Quando una donna arriva a scrivere di sé medesima quelle cose ancora, che le fan poco onore, bisogna ben dire che in lei prevalga all’amor proprio l’amore del vero; e dove l’amor del vero prevale, meritano compatimento persino i difetti.
Ecco l’unica grazia che io domando da’ miei leggitori; cioè d’essere nelle leggierezze mie compatita. Quanto più son rigorosa meco medesima nel metter in vista persino i movimenti più segreti dell’animo mio, tanto più discreti e piacevoli spero di ritrovar tutti gli altri nell’esaminare la mia giovanile condotta. Per esser soggetti ad errare, basta esser uomini; né pretendo già di non aver mai fallato; ma mi basterebbe aver tratto da’ falli miei il gran profitto di detestarli, e di non fallare mai più.
La Natura non ci distingue nel nascere; perché a un di presso nasciamo tutti all’istessa maniera. Ci distingue nel nascere la Fortuna, perché le circostanze della nostra nascita sono diverse. Chi nasce grande, nasce in possesso d’un bene, che non è suo; ma chi nasce in povero stato nasce privo d’un diritto, che dovrebbe esser suo; cioè d’esser eguale agli altri uomini, che finalmente sono tutti fratelli. Per ciò che spetta alla nascita mia non so in qual numero mettermi; perocché quando cominciai a saper cosa è vivere, non sapevo ancora come ero nata.
In età d’anni dieci mi trovai serrata tra quattro muraglie in compagnia d’altre fanciulle mie pari ivi tenute per il medesimo fine d’esser ben allevate. Nulla mi mancava del bisognevole; ma non sapevo donde tutto ciò mi venisse. Senza cercarne l’origine godevo le dolcezze d’una vita, che mi parea la migliore del mondo, perché non potevo conoscerlo se non conoscevo appena me stessa. I miei pensieri si limitavano agli oggetti presenti. Nessuno mi parlava, che di cose confacevoli alla capacità mia; e la sola natura co’ segreti suoi movimenti mi faceva sentire, che di quanto godevo ero debitrice a qualcuno.
A’ benefizj sono sensibili ancora le Fiere. Vedendomi così ben provveduta, e meglio educata, non è meraviglia che io desiderassi conoscere chi mi beneficava così, onde potergli esser grata. Questo istinto della natura in me cresceva cogli anni, e benché fosse interrotto, e distratto da mille fanciullesche occupazioni, arrivò passo passo a fissare la volubilità mia; e meritare le più mature mie riflessioni.
Le mie compagne erano tratto tratto visitate nel nostro Ritiro da’ loro genitori, e da persone di qualità, che loro si attenevan di sangue. Io non vedeva nessuno; ma la nascente mia vanità mi lusingava di non essere da meno dell’altre, e mi teneva spesso occupata a pensare come fossi nata, e qual esser dovesse col tempo la mia condizione. Il mio spirito combattuto da queste nuove idee, si trovò allora in un imbarazzo non più sperimentato per l’addietro. Nascevan esse da un principio lodevole, siccome la sperienza del mondo me lo fece in appresso conoscere: ma non lasciarono d’amareggiare le dolcezze fin allora godute nella mia solitudine. Alla tranquillità più spensierata, successero le più tormentose inquietudini, e cominciarono a correre i giorni più belli del viver mio, senza che io potessi lusingarmi di vivere.
Non sapendo chi fossero i miei genitori; e non avendo amici o parenti, su’ quali contar potessi per un diritto legittimo di natura, il pensiero dell’avvenire, m’inquietava assaissimo. La nostra Governatrice donna di senno e d’età, poteva sicuramente tranquillare il mio spirito; ma ella, che sola ne penetrava i più segreti pensieri, non solamente non se ne mostrava commossa; ma con ogni sua diligenza persino schivava di mostrarsene intesa. Vedeva ella benissimo, che se fossi ricorsa a lei per uscire da tale imbarazzo, avrei precipitata lei medesima in un imbarazzo maggior del mio. Lontanissima adunque dal ricercarmi la causa delle mie inquietudini, a null’altro badava che a sopirle, o distraerle colle carezze sue, e co’ suoi benefizj. Il cuore in essa gareggiava di nobiltà collo spirito; e le sue maniere erano veramente degne di tutti e due. I suoi benefizj a riguardo mio prevenivano i miei desiderj; e tanto pensava ella a darmi ogni giorno qualche nuovo contrassegno della sua tenerezza, che io non sapeva più cosa desiderare da lei.
Un giorno che mi trovò men pensierosa dell’ordinario, si lasciò uscire, in presenza di tutte le altre, qualche parola in proposito della mia famiglia, che ne diede una magnifica idea, e la fece credere una delle più riguardevoli della Francia. Non ci badai allora gran fatto. So che la vanità mia se ne trovò in quell’istante contenta; ma ripensandoci sopra in appresso, s’aumentarono colla curiosità mia le mie scontentezze.
All’idea generale e confusa ispiratami dalla nostra Governatrice della mia condizione non ordinaria, corrispondeva perfettamente la grandiosità e la delicatezza del mio trattamento. Benché confinata tra le angustie d’una solitudine, non mi mancavano né gioje, né abiti, né denari da far una distinta figura, e da provvedere a’ più minuti piaceri. Una voce sonora, pieghevole, e bella senza eccezione, che sortita avevo dalla natura, mi fece prendere qualche genio alla musica. Il Professore più abile d’Avignone, dove era il luogo del mio ritiro, coltivò in me questo genio per lo spazio d’anni tre, in capo a’ quali io cantava assai bene; e suonavo di Viola, e di Clavicembalo a maraviglia. Queste applicazioni dilettevoli svagando la mia fantasia scemavano in parte le mie inquietudini. La passione mia predominante era fin d’allora la lettura e lo studio. Sin dagli anni più teneri m’avevano fatta insegnare la lingua inglese, la todesca, e l’italiana; ed ognuna di queste, oltre la lingua francese a me naturale, avea contribuito non poco ad arricchire il mio spirito di cognizioni superiori ancora al mio sesso. Un numero innumerabile di Storie, di Poesie, di Romanzi, e di Viaggi, che divoravo leggendo, m’andava somministrando di giorno in giorno qualche nuova magnifica idea di quel gran mondo, che non avevo ancora veduto; e per cui mi parea d’esser nata. Quanto mi dilettava il leggere, altrettanto affliggevami il riflettere sopra ciò che leggevo, non sapendo qual figura avrei io fatta sulla gran scena del Mondo; e se mettermi io dovessi nel numero degli uomini felici; o pure, come mi pressagiva un sì cativo principio, nel numero molto maggiore de’ malcontenti.