Pietro Chiari, La filosofessa italiana

12-02-2005

E la "Filosofessa" battezzò il romanzo italiano, di Giuseppe Camerino


Pietro Chiari non rievoca solo il puntiglioso rivale di Goldoni nelle polemiche letterarie della Venezia di metà Settecento, ma anche un vulcanico e prolificissimo e disordinatissimo autore di romanzi legati al mondo del teatro o al gusto dei misteri o alle avventure di viaggio. Primo di una lunga serie è il romanzo La filosofessa italiana che ora presso l’editore Manni viene molto opportunamente riproposto in edizione moderna per le cure di Carlo A. Madrignani, il quale –in mancanza di testimoni manoscritti– si serve della prima edizione a stampa, quella veneziana del 1753 (primi tre tomi) e del 1756 (quarto tomo).
E proprio allo stampatore veneziano, anziché all’autore (il cui nome nell’edizione settecentesca non risulta nel frontespizio) viene attribuita la breve nota introduttiva all’opera, in cui si apprende, tra l’altro, che si tratterebbe di un non meglio precisato romanzo stampato a Parigi, che si finge tradotto in italiano: «Chi ebbe la benignità di mandarmelo con tanta attenzione, m’assicura; e può per la capacità sua assicurarmelo; esser egli migliore di quanti ne sono usciti fin ora: più istruttivo della Marianna, più tenero della Pamela, più intrecciato della Contadina, più vago, e, dirò così, filosofico del Filosofo Inglese, che pur fu ricevuto con tanto compatimento».
Se i modelli da emulare e superare riguardano, come si vede, grandi nomi della letteratura europea del Settecento, come Marivaux, Richardson o Goldoni, La filosofessa italiana, sin dal titolo vorrebbe «mettere curiosità nelle persone di spirito; e nelle Donne particolarmente, che si dilettano di passar qualche ora leggendo». Indicazioni, queste, che orientano assai facilmente, anche per chi abbia solo superficiali nozioni dei caratteri principali del romanzo settecentesco europeo, a classificare i temi e le caratteristiche sociologiche del lettore cui si indirizza un genere letterario come il romanzo, che più di ogni altro inaugura quella che oggi si definisce letteratura di consumo.
Proprio il romanzo di Chiari, del resto, –come rileva anche Madrignani– nel 1753 inaugura in Italia questo genere narrativo nel senso moderno (anche perché, avrei aggiunto, non possono ritenersi tali le tipologie del romanzo nella precedente età barocca); e lo inaugura anche e soprattutto alla luce di quella particolare forma narrativa esportata dalla Francia che è il conte philosophique di cui era maestro Voltaire. La novità del genere implica, naturalmente, anche una sfida ideologica e culturale, se è vero che i temi trattati sono altamente trasgressivi per il cosiddetto senso morale comune e facile obiettivo di provvedimenti di censura: tutti aspetti che contribuiscono comunque a una sempre più ampia diffusione del romanzo di Chiari.
Questa sorte di best-seller dell’epoca è intriso, almeno superficialmente, di tutti gli ingredienti della vita galante e mondana del Settecento, compresi anche quelli più marcatamente erotici. Sul piano della costruzione letteraria La filosofessa si rivela narrazione poco equilibrata e coesa per quanto concerne la verità e la verosimiglianza psicologica, a dispetto del fatto che è concepita come autobiografia condotta come se si trattasse anche di un romanzo di formazione (Bildungsroman).
La protagonista vi narra infatti tutte le fasi della sua vita, specie quelle legate alla conoscenza prima e poi alle esperienze che precedono il suo matrinonio col conte di Terme e fino alla morte dello stesso. Una serie di avventure la insegue per ogni dove in Francia e in Europa: avventure sentimentali, ma anche dolorose e terribili (come la morte di sua figlia o la rapina subita, insieme al suo amico, l’Abbate N.N., dopo aver lasciato la città di Anversa), oppure stravaganti (come le esperienze fatte a Londra in casa di Milord Zel e di Miladi, sua moglie), oppure le vicende più  meno intriganti che accompagnano la protagonista, in compagnia di alcuni amici, nel viaggio verso Napoli e la Sicilia, dove si concludono le memorie della filosofessa, la quale, alla fine di tante peripezie detta e definisce, filosoficamente, appunto, il senso dei mutamenti avvenuti nella sua vita con parole in cui si può indovinare una certa insofferenza verso la tendenza alle definizioni aprioristiche della ragione universale e della filosofia illuministica: «la immutabilità delle nostre idee non è sempre virtù, perché dobbiamo necessariamente adattarsi (dic) alle combinazioni del caso, ed alle circostanze nostre, che quaggiù esser non ponno immutabili».
E ancora: «Per ben regolarsi nel mondo manca ad alcune la capacità, ad altre l’esperienza, ad altre l’età, e quel ch’è peggio, a non poche, ancora il giudizio». Una filosofessa di molto buon senso, sembrerebbe.