Pietro Ingrao, La pratica del dubbio

17-11-2007

Ingrao: il mio Berlinguer? Un solitario in mare

E tu che pensavi? Quali erano a tuo avviso i limiti di quella linea berlingueriana?
Lo direi con una parola: l’Europa. Le carenze del PCI su questo nodo erano antiche. Persino con i compagni francesi la nostra intesa era spesso turbata da quella loro ostinata gelosia, emersa già- lo avevo vissuto di persona- in alcuni degli incontri fra i partiti comunisti avvenuti a Mosca. Con quei compagni francesi da anni ci giuravamo fratellanza; poi scattava la loro gelosia irrefrenabile.
Già a metà degli anni ’70 Berlinguer aveva cercato di allargare lo schieramento comunista in Occidente, dando vita a una alleanza tripolare con i “rossi” di Francia e di Spagna, e i loro leader (Carrillo, Marchais): sotto la formula dell’euro comunismo.
L’intesa a tre fra comunisti italiani, francesi e spagnoli, s’era compiuta soprattutto per l’impulso, e l’autorità di Enrico, molto appoggiato innanzitutto dai compagni spagnoli, da Carrillo prima di ogni altro
La durata di quella stagione fu breve, fino al 1977, quando si aprirono contrasti soprattutto con i francesi e con Marchais.
Il tema più importante che avevamo dinanzi era però l’intesa con i socialdemocratici e con le correnti cattoliche avanzate, che erano di nuovo fortemente presenti sulla scena d’Europa. Berlinguer stesso cominciò a lavorare in quella direzione, ma non senza qualche esitazione che venne meno solo nei primi anni ’80. Poi venne la tragedia che ci sconvolse e commosse tutti.
Berlinguer lavorava freneticamente in quegli anni: nel suo sforzo di collegamento con i comunisti d’Europa, e con le correnti innovatrici del Paese, dove non s’era affatto consumato il veleno del terrorismo e poi perseguendo quelle sue nuove attenzioni verso la sinistra europea e il Terzo mondo. Quel leader stava in piazza. Entrava nella lotta quotidiana. Girava l’Europa. Quando fulminea precipitò la sventura.
Stava tenendo un comizio a Padova. Mentre parlava da una tribunetta di fortuna, nel vivo di una frase, fu colto da un ictus fulminante. Crollò di schianto a terra. Tra lagrime e sgomento fu trasportato di corsa in ospedale. E là, a Padova, visse giorni disperati di lotta tra la vita e la morte: senza mai riuscire a pronunciare una sola parola.
Mi precipitai in quell’ospedale, e vissi quella sua agonia ora per ora. Venne anche Pertini, e si fermò giorni accanto a quel malato muto, che sembrava fermo a scrutare un orizzonte lontano e indicibile. Poi venne la fine. E i pianti dirotti dei compagni prostrati sulla salma, le invocazioni senza speranza, con un dolore che era pari all’amore per lui che era grande.
Infine quella salma coperta da manti e da fiori cominciò il suo dolente viaggio per la penisola: con soste in decine di stazioni, gremite da un popolo in lacrime: e infine nelle strade di quella capitale dove lo accompagnò fino a piazza San Giovanni un fiume di folla mai visto, impietrito in un incredibile silenzio.
Vennero a salutare quella salma persino avversari di sempre: Guido Carli, conservatore dichiarato…
E oggi, da così lontano, come ti appare quel leader? Come lo leggi? Che senti?
Prima di tutto provo un senso di orgoglio umano. Orgoglio per quel suo legame ad una causa: quella causa storica di liberazione dell’umano. E poi simpatia per le sue passioni singolari: come vagava solitario nel mare, quasi a interrogare l’orizzonte. Vagabondo e silente. Vederlo crollare da quel podio dove parlava del futuro del continente, mi parve una violenza crudele.
Tu però non sei mai stato “berlingueriano”. Non avesti mai un rapporto confidenziale con lui. Perché?
   
È difficile dire. La memoria di quella persona è troppo vicina. L’immagine stampata nella mia mente è quella di lui in una barca, che avanza scrutando l’orizzonte. Un solitario in mare… E come mischiate nella sua vita, nel profondo del suo sentire, una sete di solitudine e al tempo stesso una capacità di comunicazione straordinaria con la gente. Forse perché non era mai finto. Con un limite forse: pesava ossessivamente tutto. Non si abbandonava mai (almeno così mi sembrava) alla fantasia.
Fra noi due ci furono stima grande e rispetto reciproci. Confidenza no. In fondo, i nostri vocabolari erano diversi.
Siamo andati parecchio in giro. Torniamo a quegli inizi degli anni ’80, quando vai a lavorare al CRS. Che facevi? Che cercavate? Prima di tutto dove eravate allocati?
Ricordi quella strada circolare che a Roma dalla fine di via Nazionale porta a Piazza Venezia? In una rientranza c’era un breve spiazzo, dov’era sita una fontanella, a cui spesso ci abbeveravamo. La sede del nuovo CRS stava proprio di fronte a quella fontanella e al palazzo in cui fino al ’56 era stata la sede dell’Unità: là- in quel gomito di strada- io avevo lavorato furiosamente per circa dieci anni: prima come capo cronista e poi come direttore dell’Unità. In quello stesso edifizio c’era un piccolo e prelibato negozio che amavamo tanto: la libreria “Tombolini”.
La rividi quando da Botteghe Oscure passai a lavorare al C.R.S.. Era gradevolissimo scendere dalle nostre stanze e- dopo aver preso l’agognato caffè- andare a frugare fra i banchi di quel libraio intelligente, sperando sempre di mettere mano su qualche nuova pista interpretativa di quell’ardente Novecento.
Era insomma il ritorno ad una frequentazione più antica. Ecco. In quei viaggi fra gli scaffali, nei tuoi anni giovanili, che ti incuriosiva? Che cercavi?
Prima di tutto cercavo testi che riguardavano le mie passioni di sempre: cinema, poesia. Ma anche classici della politica, o testi eretici per i quali il fascismo stranamente aveva lasciato qualche pertugio, se mai da case editrici impensate come Corbaccio, per esempio.
Quanto alla letteratura cercavo non tanto autori italiani che da tempo stavano negli scaffali di casa mia (Ungaretti, Montale, Quasimodo e tutto il gruppo di quella rivista di poesia Circoli impiantata in Liguria e diretta da Adriano Grande). Ora mi avvincevano autori del Novecento europeo o della letteratura americana roosveltiana: Faulkner soprattutto e Steinbech, i suoi testi più giovani: Uomini e topi per esempio, quel libro singolare e ambiguo.
In cima a tutti c’erano però per me i grandi autori che avevano mutato, insieme con il vocabolario e il catalogo delle parole, la lettura dell’umano: Joyce innanzi a tutti, e Kafka che ci parlava da quella città indimenticabile che era Praga.
Impallidiva il piacere del fraseggio letterario a cui mi aveva trascinato il cenacolo fiorentino. Agiva una nuova lingua che si interrogava sul senso della vicenda dell’uomo.