Il senso del dissenso nella storia di Pietro Ingrao, di Valentino Parlato
La memoria di Pietro Ingrao è una miniera ricchissima, direi inesauribile, e Claudio Carnieri si rivela un abile minatore. Il prodotto è un agile libretto che continua, ma anche arricchisce, il più voluminoso Volevo la luna. Nelle poco meno di ottanta pagine di Pietro Ingrao, La pratica del dubbio. Dialogo con Claudio Carnieri, emergono fatti, personaggi e problemi e lo scontro tra Ingrao e il gruppo dirigente del Pci, forse in termini più netti che non in Volevo la luna. Nelle prime pagine – come già in scritti di Aldo Natoli – emerge la figura straordinaria di Bruno Sanguinetti. Siamo negli anni ’30, quando il fascismo aveva una faccia modernizzante e attraente, gli anni nei quali Pietro Ingrao diventò amico di Gianni Puccini e frequentò il Centro Sperimentale di cinematografia, dove lavorava Umberto Barbaro che fu maestro di cinematografia dopo la caduta del fascismo. L’altro filone riguarda il maturare del dissenso con il gruppo dirigente del Pci prima e dopo il famoso XI congresso, di cui, nel dialogo tra Ingrao e Carnieri, quasi non si parla. Sintomatico il rifiuto di Ingrao di tornare a fare il presidente della Camera e poi, quasi di conseguenza, il suo passaggio alla direzione del Centro per la riforma dello Stato. E a me pare che di fronte alla rottura tra Cina e URSS (capolavoro di Nixon) e al decadere dell’URSS, Ingrao abbia sentito forte l’attrazione delle socialdemocrazie europee, penso soprattutto a Olof Palme (Aldo Garzia ci ha scritto un bel libro), a Willy Brandt e anche a Bruno Kreisky. Questa attenzione alle socialdemocrazie di quegli anni (oggi il vecchio Pci si è autobattezzato democratico e basta) è stato per Ingrao (almeno a mio parere) un segno di realismo e anche l’emergere di un dubbio (La pratica del dubbio è il titolo di questo scritto), fecondo e positivo. Il dubbio era di Cartesio. «Ma – Ingrao dice a Carnieri – il dubbio per me non significava povertà: anzi apertura di orizzonti, audacia nel cercare. Sì, vivevo il piacere del dubbio. E avvertivo anche una ricchezza per quell’interrogarsi, cercando. Come se il mondo – nella sua problematicità – si dilatasse attorno a me».
Certo, lo stimolo del dubbio, che peraltro ha buoni genitori nel pensiero europeo, e, insieme, l’allargarsi del mondo. Per Ingrao la scoperta dell’Asia è molto importante e l’allargarsi dell’orizzonte concorre ad accrescere la fecondità del dubbio. E – ricordo – la questione del dubbio ebbe molto peso nel Pci di quegli anni. Ricordo bene l’aspra polemica di Giorgio Amendola contro i «cacadubbi» in nome di una necessità dell’agire, di non farsi sorpassare dal tempo. Cose serie che avrebbero chiesto più meditazione, e invece ci fu scontro. E debbo dire – allora consideravo Giorgio Amendola un mio maestro – che fui dall’altra parte. Prevalse, e prevale ancora in me la massima on s’engage et puis on voit, che – debbo aggiungere – è l’insegna della compagnia dei traghetti sullo stretto di Messina. Certo, puis, ho visto cose non tanto belle, ma fu, nel lontano 1969, questa massima – allora lavoravo a “Rinascita” – a convincermi di seguire l’impresa dei compagni promotori del “Manifesto”.
Scrivo questo per dire che La pratica del dubbio è pieno di stimoli a rivedere il passato e sforzarsi di intravedere il futuro. Certo nella situazione di profondo malessere nel quale è oggi la sinistra il dubbio è inevitabile e forse fecondo, ma non si può rimanere nel dubbio; non c’è tempo. Occorre mettersi in gioco. Anche San Paolo diceva che bisogna buttare il cuore oltre l’ostacolo. Tanto più che cuori verranno dopo il nostro che, oltre l’ostacolo, potrebbe anche marcire.