Un dubbio tra falce e martello per Ingrao, il dissidente, di Giacomo Annibaldis
È il «grande vecchio» cui guardano tutti i militanti della sinistra. L’unico sopravvissuto della compagine del Pci, con i suoi 92 anni lucidamente portati e i suoi interessi variegati, dalla poesia al cinema (non dimentica mai di essere stato iscritto al Centro sperimentale di cinematografia). Pietro Ingrao è un leader che non è mai apparso concretamente tale, perché sempre sospeso in un proficuo dubbio, spesso in dissenso con le linee generali del partito quando esse erano o sono troppo succube o appiattite; e quindi perlopiù in affascinante ruolo di «isolato» se non di «sconfitto» nella aperta battaglia delle idee e del diritto al pensiero diverso.
D’altronde è questo il profilo che lo stesso Ingrao ci ha voluto consegnare nella sua autobiografia Volevo la luna, apparsa nel 2006: memorie personali fissate prima che si perdano e che si fermano agli anni Settanta, con un riepilogo quasi frettoloso di quel periodo che pure fu uno dei più drammatici, complessi e cruenti e ancora confusi della nostra storia.
A tale corsività della memoria egli sembra ora voler rimediare con un libro-intervista: La pratica del dubbio, edito da Manni. Il dialogo con Claudio Carnieri parte proprio dal riepilogo di quel triennio durissimo che vide l’uccisione del sindacalista Guido Rossa, la penalizzazione dell’aborto, l’attacco a Luciano Lama nell’Università di Roma, lo scandalo Lockeed, il movimento degli Autonomi, il rapimento di Moro e l’uccisione, la elezione pontificia di Karol Wojtyla…
Ingrao ribadisce la sua inclinazione al dissenso: con Mosca e con il partito, in cui «c’era un singolare miscuglio di fratellanza e durezza». Sicché dubitare gli sembrava «l’impulso primo a cercare: aprirsi al molteplice del mondo». Il dubbio appunto richiamato nel titolo.
Ingrao ricorda quegli anni: «C’erano differenze anche molto profonde di valutazione politica. Io non me ne dolevo. Mi appassionava la ricerca. E il dubbio mi scuoteva, vorrei dire: mi attraeva. Vedevo in esso una apertura alla complessità della vita. Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare: aprirsi al molteplice del mondo… Ma il dubbio per me non significava povertà: anzi apertura di orizzonti, audacia nel cercare. Sì, vivevo il piacere del dubbio».
Nell’album della memoria sfogliato da Ingrao scorrono i volti di personaggi arcinoti: dall’«immortale Chaplin», che «da anni faceva innamorare per come mischiava la miseria al sogno», a Gramsci, «il pane al quale a lungo ci cibammo»; da Aldo Capitini e le sue marce per la pace a Bruno Kreisky, il cancelliere austriaco socialista; a Berlinguer e il suo progetto di Eurocomunismo. A quest’ultimo vengono dedicate più pagine: al suo tempo di «aspra transizione», alla sua morte mentre teneva un comizio a Padova; e anche al suo limite: «pesava ossessivamente tutto. Non si abbandonava mai (almeno così mi sembrava) alla fantasia… In fondo, i nostri vocabolari erano diversi».
Ma se su molte questioni Ingrao si mostra elogiatore del dubbio, su altre invece non ne nutre affatto. Non ne ha quando si determina la «frattura con Mosca» agli inizi degli anni ’80 (ma già prima fu lui a essere mandato in Urss per manifestare perplessità dopo l’invasione dell’Afghanistan nel 1979). Non ne nutre allorché nel 1989 Occhetto cambia nome al partito (con il consenso del 67,7% degli iscritti, ma non il suo) e con una telefonata gli intima – il giorno dopo la svolta della Bolognina – di tornare dalla Spagna (era lì anche per partecipare al funerale di Dolores Ibarruri la Pasionaria) senza rilasciare pubbliche dichiarazioni. Che sarebbero state, ovviamente, di dissenso. Dopo la Bolognina decise: «voglio restare nel gorgo».
Né Ingrao ha dubbi a dichiarare il suo dissenso in Parlamento, e «in pesante solitudine», contro la partecipazione dell’Italia al Desert Storm nel 1991. Né a quell’intervento contro Miolosevic, la «guerra giusta» che lui – per ironizzare – definì «guerra celeste», dal momento che fu da alcuni condotta con bombardamenti aerei «intelligenti» (!) sul territorio di Serbia.
E ora – conseguenza di quelle scellerate scelte rivendicate dalla sinistra – il «grande vecchio» lamenta il fatto che è ormai «sparita la parola “disarmo”; non la usa più nessuno». Perché ci siamo «avvezzati alla guerra. Non ci turba, non ci fa scandalo». Con la maschera «preventiva» la guerra «ha riconquistato cittadinanza fra gli esseri umani». E questo allarma non solo lui, ma anche tutti gli uomini di buona volontà.