Pietro Spataro, Cercando una città

28-02-2007

28/02/2007 - L'Unità
Poesie civili in cerca di una polis, di Francesca De Santis

Pietro Ingrao, Walter Veltroni e Valerio Magrelli hanno presentato la raccolta di versi di Pietro Spataro: drammi e passioni del nostro tempo. Per un attimo il tempo sembra aver fatto un improvviso passo indietro nella lunga e gloriosa storia de “L’Unità”. Come i passi di un gambero, pare che il conto alla rovescia si sia fermato agli anni ’92-96. Redattori, tipografi, grafici, perfino quasi l’intero ufficio centrale dei redattori capo de “L’Unità 2” si sono dati appuntamento nella Sala Pietro da Cortona in Campidoglio. Davanti ad un tavolo siede l’attuale vicedirettore vicario di questo giornale, Pietro Spataro, stavolta in veste di poeta. E da quel tavolo, infatti, i relatori parlano della sua seconda raccolta appena pubblicata dalla casa editrice Manni: Cercando una città.
Curioso che tra di loro ci sia l’altro direttore de “L’Unità”, Walter Veltroni, oggi sindaco della città, e Valerio Magrelli, firma storica del giornale. Ci sono anche l’autrice Piera Mattei e Pietro Ingrao, che firma anche l’introduzione al libro di Spataro. «Per questo – dice – non ero molto sicuro di voler partecipare a questa presentazione, ho già scritto quello che penso». Poi però inizia il suo dialogo, a tratti solo rivolto all’autore del libro, con il quale parla sottovoce, quasi alla ricerca di una conferma prima di condivider con la platea i suoi pensieri. «È un libro drammatico – dice senza esitare – e a volte non proprio all’altezza della tensione interiore. In alcuni versi è proprio come se Pietro tirasse un freno, per prendere fiato». Spataro lo guarda dritto negli occhi, non dice nulla, mentre le sue dita continuano a giocherellare con una penna.
Poi Ingrao si rivolge a Magrelli, che siede «alla sua sinistra: materiale intendo», mette subito in chiaro. «La parte del libro che più mi ha trascinato è quella che va verso la conclusione tragica del tempo esaminato». Per Magrelli in Cercando una città c’è la stessa tensione che aveva trovato nella prima raccolta di Spataro, Al posto della cometa, «in questo caso però il libro si apre alle poesie civili, dove convivono il pubblico e il privato. E come si intuisce dal titolo stesso una città reale e ideale si intrecciano». Ed è così in tutto il volume.
Cartografie, mestieri (dal falegname all’elettricista, dall’operaio al muratore; bellissima la poesia Uno in più che recita «Da oggi sei un esubero quindi / non sarai più esuberante»), volti del passato e del presente (Pintor, Berlinguer, Luzi, Che Guevara…), viaggi, tragedie del mondo. «Mentre stavo raggiungendo questa sala ho ricevuto un sms di un’agenzia che diceva: “In Iraq una bomba uccide 18 ragazzini” – racconta Veltroni – e ho pensato al verso di Spataro “non sa la bomba l’indirizzo giusto”». L’autore ne approfitta per ringraziarlo di essere «portavoce di un’idea politica ancora in grado di muovere le passioni di uomini e donne». Quel verso tratto dalla poesia intitolata Il pensiero della bomba piace a molti in quella sala, Ingrao compreso. Più voci rileggono la poesia, anche Paola Pitagora che ha accompagnato la presentazione del libro con le sue letture insieme al violino di Giovanni Bruno Galvani. Quella bomba che «non sa dove abita la vita» «inerte porta morte» continua a cadere, ma un segno di speranza nel libro c’è: ancora si può continuare a cercare.

28/02/2007 - E Polis - Roma
Poesia di ogni giorno sono i versi di Spataro, di Chiara Papaccio

A chi la poesia la frequenta poco o male, a chi l'ha presa a forza solo a scuola, questa può sembrare materia distante anni luce dal nostro essere vivi nel Ventunesimo secolo. All'uomo della strada sembra fatta solo di versi in rima baciata, di fiori che sbocciano, di contemplazioni auliche, un'estranea che non ha mai guardato il tg. Ci sono invece eccellenti esempi di poesia contemporanea che tiene ben saldi i piedi nel nostro quotidiano. L'autrice statunitense Linda Pastan ha scritto memorabili lavori sull'essere casalinga; Adrienne Rich, considerata fra le più importanti autrici viventi, ha composto poesie politiche sulla condizione delle donne, sulla violenza in carcere: commento in versi del fatto di cronaca.
Sono due esempi ma non gli unici casi. Succede anche in Cercando una città, secondo libro di Pietro Spataro, pubblicato da Manni Editore. Spataro, che coltiva la passione per la poesia, è giornalista, vicedirettore vicario dell'Unità, e ha presentato il lavoro in Sala Pietro Da Cortona, in Campidoglio, presenti il sindaco Walter Veltroni, Valerio Magrelli, Piera Mattei, Pietro Ingrao - che firma la prefazione di un volumetto che si vorrebbe più spesso. Paola Pitagora ha dato voce alle riflessioni di Spataro, ritratti brevie appassionati della città che ci circonda con i suoi personaggi, dai muratori in equilibrio sui palazzi a Papa Wojtyla, opposti estremi degli anni che attraversiamo veloci. Insieme, la dedica a Luigi Pintor così come a Ian Cazacu, l'operaio rumeno dato alle fiamme dal proprio datore di lavoro. C'è l'attesa del treno per tornare a casa, il cielo sopra Baghdad, e una dolorosa immagine di una bomba che rimane dentro: “inerte porta morte, veloce infilza/spalanca corpi, squarcia la storia”.

02/03/2007 - L'Unità
Noi che volevamo cambiare il mondo, di Walter Veltroni

 
Mentre attraversavo la strada che porta dalla mia stanza in Campidoglio a questa Sala, a un certo punto è squillato il telefonino e mi è apparsa una notizia di agenzia: «Iraq, autobomba che uccide diciotto ragazzini che giocavano a pallone a Ramadi». Ho pensato a quei versi di Cercando una città, il nuovo libro di poesie di Pietro Spataro, che dicono: «non sa la bomba l’indirizzo giusto» e «inerte porta morte». Mi sono venuti in mente quei diciotto bambini che giocavano a pallone, mi è venuto in mente che cosa era la loro vita, quali fossero le loro aspettative, chi avrebbe eventualmente sperato di diventare un grande calciatore, chi sarebbe potuto diventare un fisico nucleare, chi uno scrittore o chi un operaio. E una bomba ha cancellato tutto questo.
Pietro Ingrao ha detto una cosa molto giusta, ed è la sensazione che anch’io ho avuto leggendo il libro, e cioè di un libro drammatico, il racconto di un dramma collettivo. Uno dei suoi versi dice: «Volare è leggerezza ma non è leggero questo tempo, ancora non è leggero». È la sensazione, cioè, di un tempo pesante. È la sensazione della quale noi tutti facciamo una certa fatica a liberarci. Viviamo in un tempo pesante, che ci lascia uno sguardo smarrito di fronte a una certa contemporaneità, a uno sviluppo senza qualità, a una modernità senza anima.
Lo voglio dire come mi viene dal cuore: noi abbiamo fatto gli striscioni, abbiamo stampato i volantini, abbiamo portato le nostre bandiere, abbiamo gridato i nostri slogan, abbiamo passato poche ore a dormire perché volevamo cambiare il mondo, e se ci fermiamo razionalmente e freddamente a pensare, dobbiamo dirci che per una parte ci siamo riusciti. Perché il mondo è cambiato anche grazie a tutto quello che per tanti anni durante tutto un secolo, e forse persino prima, anzi certamente persino prima, è stato fatto. Ma questo è razionale, è perfettamente e terribilmente razionale. Se invece guardiamo nel profondo del nostro cuore, se invece cerchiamo dentro di noi e ci guardiamo intorno, vediamo tante cose che non avremmo voluto e questo ci fa del male. Perché è vero che alcune cose sono cambiate come volevamo, che tante ingiustizie non ci sono più, che tanti diritti sono stati acquisiti, che tante dittature sono state cancellate. Ci accompagna anche, però, una sensazione di smarrimento nel guardare certe cose del mondo che ci appaiono impensabili. Quando vedo che negli Stati Uniti ha un grande successo un sito che vende dei reggiseni luminosi che si accendono e si spengono, oppure quando vedo che ha grande successo, con tutto il rispetto, uno psicologo per cani, o quando vedo il delirio di frivolezza che ci attraversa e metto a fronte tutto questo con le condizioni umane che non solo gli occhi della mente ma, nel mio caso come nel caso di tanti altri, anche con gli occhi degli occhi hanno visto, rimango colpito. Rimango colpito se lo metto a confronto con i diciotto ragazzini che muoiono a Ramadi o con quelli che oggi stanno morendo perché nessuno gli dà una ciotola di riso.
Quello è un mondo che non ci può piacere, almeno a noi che facevamo gli striscioni, stampavamo i volantini, gridavamo gli slogan e volevamo cambiare il mondo e forse un po’ l’abbiamo fatto, e però non ci basta. E ci fa arrabbiare, ci dà dolore quello che non siamo riusciti a cambiare o forse quello che ci è persino cambiato contro. Allora il libro di Pietro Spataro è secondo me tutto questo. E alla fine pur essendo, come giustamente è stato detto, un libro drammatico, è anche un libro che ha un segno di speranza. Perché è il libro di uno che non smette di cercare, di uno che cade e si rialza, di uno che non ha voglia di interrompere il viaggio e che pensa ci sia ancora d fare. E finché si pensa che c’è ancora da fare per ciascuno di noi individualmente e collettivamente, allora forse il futuro può essere meno cupo di quanto razionalmente ci possa apparire.
 
Il testo è tratto dall’intervento di Walter Veltroni durante la presentazione in Campidoglio del libro di Pietro Spataro  Cercando una città.

01/03/2007 - Poesia
Lo psicologismo della disfatta, di Luca Canali

Quando leggo alcune poesie di Pietro Spataro scegliendole tra le più belle – giacché non tutte lo sono, né potrebbero esserlo – mi viene da ridere pensando ai contorcimenti sintattici, alle furbastre trovatine lessicali, alle facili associazioni di idee, alla comoda ma appariscente “scrittura” automatica da neoermetismo di tante composizioni pseudopoetiche assai in voga in questi anni, specie fra giovani e sgomitanti giovinette, impensatamente promosse in Serie A, dal nulla o dalla Serie C, su riviste specializzate, come, ad illustre esempio, il recente Almanacco dello Specchio. Volete i nomi? Inutile: basta leggere, e anche il più sprovveduto lettore li scoprirà in completa autonomia. L’unico stupore è sapere che questa pubblicazione è firmata da espertissimi curatori e selezionatori, come Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi, poeti ormai “laureati”, che evidentemente in questa scelta dormitabant, o indulgevano a qualche sollecitazione estranea alla poesia. Spataro, un giornalista cinquantenne, provato da una lunga routine di impegno politico, è ora uscito allo scoperto, a ridare fiducia nella poesia e nella fondamentale “onestà” di essa. Ricordate quel che scrisse Saba a proposito dell’onestà intellettuale come inevitabile premessa di ogni autentica creazione artistica? O anche Hemingway, quando addirittura canonizza questo concetto con la famosa frase “la cosa più difficile che ci sia al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani”? Se si pensa a queste elementari premesse di ogni letteratura, uno stuolo di poetini dovrebbe prendere ignominiosamente la fuga, insieme ai critici dottamente dediti alla kolakèia editoriale. Spataro può invece andare a testa alta con la sua onestà persino a volte rude, ma sempre ispirata e autenticamente poetica. Eccone qualche esempio: “Non importa stasera / se il treno sarà puntuale / importa a noi disgiunti / se l’arrivo sarà cogente: / se gente al binario / aspetterà l’ingresso / del convoglio in sede / soprattutto se ci sarà / una mano a prenderci / per riportarci dove / ci eravamo lasciati” (Al binario); oppure: “La tua borsa nera era / un fantastico ritrovo / aperta cercavo pinze / tenaglie, chiodi da sei / […] / il martello, la levigata / armonia della pialla […] / Tutto saliva lentamente / sulle mie mani incerte / verso le tue sicure / per dare forma all’informe / all’indefinito legno / appena nato” (La borsa dei ferri); ma anche, con ispirazione tutta diversa: “Sapevano di vederla / la morte in faccia al reticolato / aggrapparono i corpi al silenzio / e andarono a morire di mattina / senza sentirsi eroi / nemmeno un po’ per commozione” (Eroi). Il rischio che invece Spataro corre, pure in questa sua limpidezza poetica, è un moralismo, o forse meglio uno “psicologismo della disfatta” che potrebbe essere, più che meditato, metabolizzato attraverso una maggiore concentrazione dell’estro che è, attualmente, a volte forse troppo diretto e immediatamente consolidato in soluzioni prosastiche genericamente ideologizzanti.

06/03/2007 - www.wuz.it
Il Novecento

"Cercando una città è un libro asciutto e amaro. Si trova a volte nei testi un certo spaesamento davanti agli orrori della nuova modernità: l'irrompere sulla scena del popolo degli immigrati come nuovi sfruttati, la solitudine che ognuno reincontra nei 'frammenti di vita quotidiana'.
E tuttavia nelle asciutte liriche che fanno questo libro è forte la domanda, la speranza di un consorzio umano, plurimo e articolato, dove gli abitanti si riconoscano reciprocamente. Il poeta cerca una 'città'."
Pietro Ingrao 

Preghiera civile
Abbiate pietà di noi
dispersi senza scienza
nella furia dell'epoca
perdonateci gli errori
alleviate a noi i dolori

sopportate gli avari
commerci di uomini
i fiochi sentimenti:
noi qui siamo stranieri
persino nei nostri

quotidiani pensieri
perduti in una terra
che più non trova
la fonte della vena
nella guerra nuova

Raramente parliamo di raccolte di versi, ma queste liriche di Pietro Spataro ci sembrano davvero interessanti: per la tematica trattata e per l'asciuttezza essenziale dei versi.
La tematica: il secolo scorso ha visto scontri sanguinosi in ambito sociale, due guerre mondiali e una trasformazione del lavoro accompagnata da lotte durissime e da rivendicazioni talvolta vincenti.
Il Novecento è stato anche il secolo della crisi: crisi delle ideologie, crisi di tanti ideali e di tante speranze. Secolo in cui la "macchina" è diventata centrale nella vita degli uomini, anzi dominante, ma in cui c'è stata anche la possibile creatività di chi lavora, artigiano creatore, operaio le cui mani lasciano una traccia personale. Si staglia poi, quasi all'improvviso, la figura del padrone, colui che decide, che ha il potere di escludere e di negare. 

Da questa contrapposizione tra il sapere operaio e il potere nelle mani di chi può deciderne le sorti nascono gli scontri. Ma quanto viene qui cantato non è solo rievocazione del passato: le ricadute di questa subordinazione hanno una forte conseguenza sul presente.
La ricerca ancora densa di speranza però non si placa: "Cercando in giro il mondo catturo il sentiero dominante". Dov'è, quale può essere la "città" in cui vivere? L'hanno cercata con passione i giovani nel '68 e gli operai nel '69, hanno però smarrito la strada, bloccata dalla cieca violenza delle bombe e, negli anni, non siamo riusciti a trovare un altro percorso. I grandi uomini che hanno lasciato una traccia sono spariti, sconfitti dalla morte: Pintor, Berlinguer, Wojtyla, Che Guevara...
Ma c'è un nuovo popolo che cerca la "città". È il popolo dei nuovi poveri, dei migranti, le cui speranze si infrangono con un violento impatto contro la realtà dell'emarginazione, dello sfruttamento e della solitudine che li accoglie.
Eppure, nonostante il pessimismo che pervade la raccolta, Spataro sembra voler ostinatamente continuare a cercare e, solo timidamente accennando, a invitare il suo interlocutore, il lettore a raccattare le pietre e a ricominciare, come i versi di Giorgio Caproni posti ad apertura della raccolta, indicano. 
C'è anche una dimensione più intima e personale che viene qui rappresentata, il padre, un amore, una passione dolce e quotidiana, un senso di perdita incombente, ma anche uno scatto interiore alla speranza.

Nulla di didascalico in queste poesie: la pregnanza dei contenuti non distolga dall'aspetto veramente lirico dei versi. Nessuna retorica, nessuna concessione o complicità col lettore: la realtà emerge in tutta la sua complessità e durezza da versi essenziali e da una poetica fatta più dal togliere che dall'aggiungere, creata da parole quotidiane, ma mai banali, da una musicalità senza compiacimento, ma di naturale ritmica del verso in cui la citazione di altri poeti che apre ogni capitolo sembra voler essere un omaggio alla poesia italiana del Novecento e al dolore che ha saputo cantare.

Cercando una città
Cercando una città
dove vivono i poeti
si canta nelle strade
e nelle case si apre
la porta a ogni passante
dalle finestre si aspetta
il rittorno di quelli
che erano spariti un tempo
Poi si leggono i libri
sulle panchine in piazza
ognuno recita il suo ruolo
il vigile non vigila
sulle infrazioni ma tiene
a bada la frotta dei lettori
e degli ascoltatori
E si immagina il domani
che sarà giorno forse
più lungo, più sereno:
una libera corona di parole
levigate dai respiri

Pietro Spataro nasce a Roma nel 1956 ed è l'attuale vicedirettore vicario de L'Unità, giornale in cui è antrato nel 1978. Si è occupato come cronista, negli anni Ottanta, di politica, di cronaca e di sindacato, poi in qualità di capocronista e di cronista parlamentare. Caporedattore sotto la direzione Veltroni ha collaborato alla rinascita del quotidiano. Era vicedirettore quando il giornale chiuse doloramente nel 2000 e partecipò attivamente alla sua riapertura e al suo rinnovamento così da essere di nuovo Vicedirettore sotto la direzione di Furio Colombo.
È autore di una precedente raccolta di poesia Al posto della cometa.

28/03/2007 - La Repubblica
Storie in versi dal mondo degli operai, di Giuseppe Leonelli

 La prima cosa che si nota scorrendo le pagine di Cercando una città, raccolta di poesie di Pietro Spataro (Manni, pagg. 121, Euro 13), è la presenza di esemplari di umanità in estinzione. Si affacciano dalle pagine serie di Operai, tra i quali spiccano Un falegname, Un manovale, Un muratore e altre figure di quello che si definiva, appunto, mondo operaio. Cerco invano di richiamare alla mente, nella produzione degli ultimi vent’anni, qualche opera in cui si parli, come Dio comanda, di loro. Li incontravamo spesso nei libri in tempi che appaiono ormai più lontani della luna, quando ancora ci si interrogava sul mondo in cui volessimo vivere e come la vita, dopo le ben note e ormai dimenticate storture secolari, dovesse essere rifatta e a chi spettasse ricostruire.
“Un libro asciutto e amaro”, lo definisce Pietro Ingrao, che firma la prefazione: ma anche vivificante, se fa vibrare una corda civile sempre più desueta e ne trae armonie forse sovrastate dal cicaleccio di una postmodernità sempre più vacua, ma, per fortuna, non ancora spente.

29/03/2007 - Europa
Poesia per sé e per gli altri, di Angelo Paoluzzi

Sono senza un punto, come se il discorso dell’impegno, anche in poesia, non finisse mai. Nelle settantanove composizioni di Pietro Spataro in Cercando una città (Manni editore, San Cesario di Lecce, 2006, con prefazione di Pietro Ingrao) è prevalente il respiro della testimonianza per lo più breve, mai superiore ai diciannove versi, in una misura entro la quale si campisce un ritratto, una situazione, un ambiente. Magari con spirito didattico e aperture alla speranza, come nei versi di Cercando una città, appunto che danno il titolo alla raccolta o in “Fotografia”, con l’apertura della «piazza macchiata di bandiere / la voglia immensa di fuggire / via per costruire una città / senza cancelli e senza insegne».

[…]
Piste di lettura da percorrere, lungo le quali accenni di citazioni ungarettiane, montaliane si intrecciano con più sofisticate frequentazioni (Louis Aragon, Dylan Thomas?), amalgamate, peraltro, dalla voglia di tenere gli occhi aperti, al modo cardarelliano di «morire sì, / non essere rapito dalla morte».
Tutto, in poesia, è decantazione e risonanza, saper leggere attorno a sé e restituirlo in canto come fa Spataro, talvolta con accenno sommesso, altrove un po’ più risentito, là dove la decifrazione è – diciamo – politica. Un aggettivo che non ci dispiace di utilizzare perché quella era la dimensione di Pier Paolo Pasolini di Le ceneri di Gramsci, di Paul Eluard di Capitale de la douleur, di Ghiannis Ritsos di Epitaffio Makronissos, di Pablo Neruda di Canto generale. Accompagnata dalla partecipazione al dolore che non si estingue come nei sei lancinanti versi ricordo di “Eroi”: «Sapevano di vederla / la morte in faccia, al reticolato / aggrapparono i corpi al silenzio / e andarono a morire di mattina / senza sentirsi eroi / nemmeno un po’ per commozione».
Talvolta la scrittura si traduce in ideologia. Diversamente da quanto Ingrao scrive nella prefazione, pensiamo che il timbro più convincente non stia lì ma in una sorta di sorvegliato abbandono, dove si incrociano i due piani – partecipativo e intimo – e l’essere per gli altri trova le proprie radici anche in un essere per sé. Alle belle statuine dell’enfasi proletaria preferiamo la domanda e il dubbio, magari l’angoscia di irrisolte, esistenziali risposte che l’autore dissemina lungo gli stichi delle liriche. E a loro corrisponde il ritmo di brevi ballate, con tentativi – non troppo dissimulati – di rime interne, che sono come indizi di un ordine sognato. Spataro affida messaggi nella bottiglia – come fa ogni nativo poeta – al possibile incontro con altrui affinità. Chiama. Qualcuno risponderà? E avverte, in “Il collezionista di profumi”, che «Dopo si alza / l’ala infinita della memoria». Quella che permette di sopravvivere.
 
30/03/2007 - Diario
Le imposture della modernità, di Chiara Vecchietti

Verso un paese dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno. Viene subito in mente la scritta su cui si chiude Miracolo a Milano, nel leggere questi versi risentiti e civili. Come sottolinea Pietro Ingrao in una calorosa prefazione, sono le nuove, intollerabili forme di sfruttamento a spingere la raccolta di Spataro verso una città diversa, in grado di garantire diritti e rispetto anche ai più umili lavoratori. Per scoprire le imposture della modernità, per trovare le risposte da offrire ai paria del nuovo millennio (immigrati e precari in prima fila), un metodo c’è: si cominci col guardare alla dignità di operai, falegnami, meccanici, manovali delle generazioni trascorse. È lo struggente ricordo delle loro lotte e sacrifici a lacerare il regno della finzione che ci assedia: mondo di falsi, furbi e ladri scaltri / voglio andar via, cercare insieme agli altri.
Rovistando tra i frammenti della vita quotidiana possono allora capitare gioie minuscole, ma inestimabili – non fosse altro che un soffio di vento settembrino che accarezza la schiena. Vengono così a comporsi cartografie, lunari e calendari indispensabili per attraversare a occhi aperti e lucidi il nuovo secolo. Poesie singolari, di questi tempi: poesie che meritano l’aggettivo di neorealiste, perché hanno da un lato il coraggio della cronaca senza maiuscole, dall’altro l’attenzione per le tragedie anche lontanissime che anneriscono le colonne dei giornali e rimbalzano spietate, ogni giorno, nelle nostre stanze.

 
01/04/2007 - Corriere della sera
Liriche di "poveri cristi" aspettando un sogno che si chiama libertà, di Franco Manzoni

Dolente analisi in versi della complessità del reale, dove confessioni intime s’intrecciano a drammi collettivi. Mentre un tempo sanguinante e agro sembra non offrire alcun punto di riferimento preciso o una via di salvazione. Pietro Spataro, dopo il significativo esordio con la raccolta Al posto della cometa del 2002, costruisce ora un testimoniale percorso a frammenti per descrivere tutto il Novecento e oltre nella silloge Cercando una città, accompagnata da una toccante prefazione di Pietro Ingrao: dallo sfruttamento padronale della forza lavoro al senso di solitudine e disorientamento dinanzi agli orrori del presente. Attimi di esistenza quotidiana di operai dal corpo consunto, che conservano però “un fiore in tasca”, si alternano alla disperazione di disoccupati e all’irruzione di nuovi migranti, un’altra folla di ultimi della Terra senza terra, oggetto di ignobili commerci, “poveri cristi senza un cristo accanto”. Il linguaggio di Spataro è diretto, “popolare” ma raffinato, mai banale. I versi si presentano asciutti, essenziali, procedono a scatti, in sequenze brevi, inducono a pensare che l’autore abbia frequentato con passione i lirici greci, Ungaretti, Quasimodo, Penna, Caproni, Luzi. Ne sgorga un canto civile di denuncia privo di retorica, gravido di una densa amarezza. Nato a Roma nel 1956, giornalista, attuale vicedirettore dell’“Unità”, Spataro, che ha vissuto sulla propria pelle la crisi delle ideologie e il travaglio del Partito comunista, descrive il viaggio esistenziale della sua generazione attraverso un canzoniere etico, in cui si percepisce il laico sentimento religioso delle cose. Mirabile è il testo Il pensiero della bomba, che evoca l’agire onnipotente e cieco di ogni ordigno esplosivo: “Non sa la bomba l’indirizzo giusto / non sa dove abita la vita / inerte porta morte, veloce infilza / spalanca corpi, squarcia la storia, s’innalza / potere sul mondo, verbo da accoppiare / – coniugando i tempi del morire”. Tuttavia da questo pessimismo Spataro sa estrarre un seme di speranza proprio nella continua ricerca di un sogno: immagina un luogo dove finalmente esistano pace, libertà, poesia e uguaglianza. Una città che non sarebbe affatto dispiaciuta a Tommaso Campanella.

 
01/04/2007 - Letture
Versi di impegno e di vita quotidiana, di Roberto Carnero

È una poesia concreta, della vita e delle cose che fanno la vita, quella di Pietro Spataro. Prendiamo, ad esempio, la sezione su cui si apre questa sua seconda raccolta poetica (la prima, intitolata Al posto della cometa, era uscita nel 2002): “Mestieri”. Si tratta di una carrellata di sguardi e visioni sul mondo del lavoro, non tanto contemplato con il distacco del letterato, quanto vissuto dall’interno, con un atteggiamento di partecipazione umana ed emozionale: sono gli operai, consunti dalla fatica; il padre falegname con i suoi attrezzi, custoditi in una borsa nera che al poeta bambino sembrava qualcosa di affascinante nel suo mistero; e poi ancora un elettricista, un meccanico, un manovale, un muratore…
L’autore si definisce – come recita il titolo di un componimento – un “osservatore imperfetto”: “mancano le mappe / il cannocchiale, la postazione / per seguire l’andamento / dell’umana insoddisfazione”. È un osservatore “senza un planetario, anzi / senza nemmeno / uno straccio di stradario”. Ovvero – azzardiamo un’interpretazione – senza la facile consolazione di griglie ideologiche troppo rigide e ormai superate. Questo atteggiamento di fondo, tuttavia, non porta al nichilismo. Perché emerge una passione civile che è militanza (Spataro è, tra l’altro, vicedirettore di uno storico quotidiano di lotta e impegno, l’Unità): c’è la storia recente e l’attualità, la guerra in Iraq e frammenti di vita quotidiana, Mario Luzi e Karol Wojtyla.
Il critico di mestiere potrebbe sottolineare qualche asprezza formale, qualche ruvidità del dettato, alcuni versi non del tutto risolti sul piano formale, ma questa materica pastosità dello stile è forse proprio uno dei tratti distintivi – e alla fine, dunque, un pregio – che aggiunge carattere alla poesia e testimonia come non si tratti certo di un semplice esercizio letterario.

30/04/2007 - Il messaggero
Nel canzoniere i sogni, le speranze, le sconfitte di una generazione, di Renato Minore

«Trent’anni dopo se il mondo, chiediti / è come sognavamo oppure il sogno / ha travolto precipitando / la compagnia dei sognatori». La poesia di Pietro Spataro è nel battere malinconicamente ossessivo dell’interrogazione, è nella risposta ostinata che non affiora, ma dissemina una sua filamentosa presenza in volti e figure ricorrenti. Nella forma quasi diaristica, un canzoniere con dentro sogni, speranze, cocenti sconfitte di un’intera generazione, è una domanda di senso, di tragitto nel senso, ben delineata in una mappa «senza nemmeno uno straccio di stradario»: la ricerca della “città” è metafora centrale, vincolo forte e stringente che attraversa l’intera raccolta, l’articolazione dei suoi diversi momenti.
La città è quella una volta abitata dagli antichi mestieri con tutto il sapere dispiegato nella materialità dei gesti: l’operaio, l’elettricista, il meccanico, il muratore, il paterno falegname che «abita il legno, / lo custodisce come fosse un figlio suo» fino al lavoratore in esubero, «nuovo pastore errante della modernità».
Imprigionate nel tempo della memoria, quelle figure violentemente si rovesciano nel tempo dell’attualità che brucia ogni speranza e rende ancora più angoscioso e sfingeo il volto del futuro. Intorno a questo nocciolo duro che rappresenta la sua “durata”, l’assillo di un pensiero torturato dalla sua dilaniata centralità, la poesia di Spataro si mostra nella sua complessità dissimulata, nella sua ingannevole trasparenza, nella sua lacerata attitudine a immaginare «il domani che sarà giorno più lungo, / più sereno: una libera corona / di parole levigate dai respiri». Su cui si può anche scaricare la sotterranea, febbrile utopia del «fabbricare sconfitte, demolizioni / in attesa di ignote resurrezioni».

 

19/05/2007 - Alias

Il Novecento precario di Spataro, di Massimo Raffelli
Nato a Roma nel 1956 e già firmatario nel 2002 di Al posto della cometa Pietro Spataro con Cercando una città attinge un’ormai riconoscibile fisionomia poetica. Refrattaria, quest’ultima, al senso comune e anzi a un maggioritario che la vorrebbe attività separata e tutta devoluta a una riflessione intransitiva sul linguaggio ovvero a una ‘ducibilità’ che accolga cedevolmente i riflessi del mondo esterno insaccando le parole d’ordine dell’oggi. Spataro va appunto contromano e, rischiando una consapevole inattualità, punta sui segni certi e non ambigui della scrittura, sulla presa diretta dei significati e non sulla allusione del senso. In questo la sua è, per etimologia, una poesia politica in quanto indica un percorso (prefigura la cerchia di una Polis, remota e tuttavia sperabile) senza la superbia, vale a dire la retorica, del cosiddetto engagement. Anzi la sua politicità prima e meglio che nei contenuti, sta ora nel diniego ora nel rigetto della metafora, a vantaggio di sequenze metonimiche (dense di cose / fatti / nomi che sfilano di seguito, in assenza di maquillage) il cui rilievo, esatto e frontale, si deve anche a una metrica calibratissima, ritmata dagli endecasillabi e dai settenari.
Un Novecento defilato (lo stesso del sublime domestico, da Saba a Penna, da Caproni a certo Pasolini epigrammatico) sovrintende a una musica che non si vuole tale se non nel richiamo di quanto sembra ovvio, naturale, persino banalmente quotidiano, ma non lo è affatto, anzi è dolorosamente sovraccarico di fatica taciuta e rimossa, di speranze bruciate, di un disincanto, infine, che può sempre tradursi in malinconia e disamore: ecco dunque, nella prima parte del libro, il sobrio profilo di uomini al lavoro, le figure dei compagni e dei maestri più vicini così come, nella seconda parte, si dispiega una mappa dei sentimenti e dei privati pensieri, i quali vanno e vengono (fluttuanti, precari, eppure necessari) per essere appuntati al margine, sul rovescio dell’inerzia mediatica, spiazzandone gli automatismi percettivi. Insomma il poeta concepisce il suo libro alla maniera di un promemoria che rammenti come, oggi, lo sfruttamento, l’accecamento ideologico e la guerra siano condizioni di una paradossale normalità: quelle messe per iscritto nei versi di Spataro sono dunque verità parziali, elementari, ma non meno urgenti perché, scrive Ingrao nella sua nitida presentazione, «nelle asciutte liriche che fanno questo libro è forte la domanda, la speranza di un consorzio umano, plurimo e articolato, dove gli abitanti si riconoscano reciprocamente». È detto nella clausola di un componimento, tra i più intensi di Cercando una città, che si intitola «Il gilet» ed è dedicato a Luigi Pintor: «[…] il mondo così come lo volevi / Darai con trenta righe un graffio / lasciando il segno sulla pelle tesa / in modo che ci ricordi sempre / quel che avremmo voluto // e non abbiamo avuto».

05/06/2007 - www.orvietonews.it
Spataro a Terni

 
Pietro Spataro, giornalista e attualmente Vicedirettore Vicario de "l'Unità", è nato nel 1956 a Roma dove vive e lavora. Entrato giovanissimo nel 1978 nel quotidiano fondato da Antonio Gramsci, è stato capo del Servizio Politico, poi Redattore Capo e per lunghi anni Responsabile dell'Unità 2, il secondo giornale di cultura, società e spettacoli ideato dall'allora direttore Walter Veltroni, al quale collaborarono i migliori scrittori italiani. Nel 2001 è stato chiamato da Furio Colombo come vice direttore. Coniuga l'attività di giornalismo con la poesia: autore di un altro libro di poesie, Al posto della cometa, 2002, ha ora editato con Manni i versi di Cercando una città, introdotti da Pietro Ingrao.
Il libro sarà presentato a Terni venerdì 8 giugno, alle 17 presso la Biblioteca Comunale (Piazza della Repubblica 1). Interverranno Paolo Raffaelli, sindaco di Terni, Clara Sereni, scrittrice. Coordina Sonia Berrettini, assessore alla Cultura al Comune di Terni. Letture di Lucio Mattioli e musica dal vivo.
Diviso in quattro sezioni (Genealogie, Cartografie, Planetario, Lunario), Cercando una città è la dura rappresentazione di un'epoca sempre più in bilico. Ed è soprattutto il canto malinconico di una generazione che pensava di cambiare il mondo e che ora, sconvolta dall'ora infinita della memoria, tenta di costruire un nuovo sé e cerca una terra che non appaia più come un "nero porto sepolto" o un campo di battaglia dove si consumano "le ore di inutile gloria".
Introdotto da uno scritto di Pietro Ingrao, che legge i testi attraverso il bagaglio della sua lunga battaglia politica e con la sensibilità del poeta militante, questo libro è un grido contro l'apatia del presente e contro la rassegnazione: quasi una preghiera civile, un urlo di speranza perché torni l'ottimismo della volontà.