La letteratura non si è fermata a Eboli, di Massimo Onofri
In un'intervista del 1999, ora raccolta in questo Diario del Sud, ricapitolazione d'un rapporto col Meridione che dura ormai da più di cinquant'anni, Raffaele Crovi confessava a Raffaele Nigro: "Ho incontrato il Sud da giovane, quando lessi sul Politecnico un'inchiesta firmata da Ugo Vittorini, il fratello di Elio. Sia Ugo che Aldo Vittorini vivevano allora a Barletta". E poi, poco più avanti: "Io sono un sedentario. Conobbi la Puglia in Un popolo di formiche di Fiore e ne La luna dei Borboni di Bodini, o in Aria cupa di Cassieri. Lo stesso è stato per la Basilicata, che ho conosciuto attraverso Sinisgalli e Levi o attraverso i versi di Scotellaro e Pierro". Proprio così: Diario del Sud, più mappa circostanzioata che taccuino (nelle sue sette parti geograficamente scandite: Abruzzo e Miolise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna), e nel recupero di saggi articoli e persino risvolti di copertina (quello di editore è un mestiere che Crovi non ha mai smesso di esercitare), è libro che nasce da uno sforzo continuo di mediazione intellettuale. Si potrebbe aggiungere che non c'è pagina del Sud scritta da Crovi, che non gli sia stata sollecitata da un problema culturale: e nel segno di quello che è stato da subito, per dirla con una parola molto vittoriniana (il Vittorini di cui fu giovanissimo assistente), un "progetto". A partire dal lungo e fortunato saggio che Crovi scrisse a 26 anni nel 1960, Meridione e letteratura, concepito e pubblicato dentro quel laboratorio di politica letteraria che è stato il menabò, diretto appunto da Vittorini e Calvino. Un saggio che, per Diario del Sud, può fungere bene da premessa trascendentale: su cui misurare non solo ciò che Crovi è andato scrivendo sull'argomento, ma anche un fondamentale e cospicuo capitolo della storia non solo letteraria del secondo Novecento, un capitolo non ancora concluso se è vero che, proprio sul nuovo Ministero dello Sviluppo e della coesione territoriale (di fatto, un Ministero per il Sud), si parrà molta della nobilitate del governo appena insediato.
Il saggio di Crovi poggiava su una documentazione di primissima mano: i nomi da citare, per un discorso su letteratura e Meridione, ci sono tutti, da quelli destinati ad un oblio più o meno feroce - mettiamo Livia De Stefani, Maria Giacobbe o Maria Occhipinti; Leonida Rapaci, Saverio Strati, Dante Troisi o Fortunato Seminara; Franco Cagnetta, Danilo Dolci o Rocco Scotellaro; Mario Lo Cava, Luigi Incoronato o Aldo De Jaco; Michele Prisco, Carlo Bernari o Giuseppe Dessì: e si potrebbe continuare -, ai più consacrati - Ignazio Silone, Tomasi di Lampedusa, Carlo Levi, Giuseppe Bonaviri, Domenico Rea, Leonardo Sciascia -, compresa Anna Maria Ortese, quella de Il mare non bagna Napoli la quale, dalla cifra meridionale, avrebbe poi derogato in maniera eclatante. Concretissima, insomma, è la materia su cui Crovi lavora. Epperò sottoposta a quegli interrogativi ideologici - quando il concetto di ideologia aveva significati nobili e non così ideologicamente ingenui, come ora, che si fa finta di credere che si possono dare discorsi, appunto, al grado zero dell'ideologia -, insomma agli imperativi di una fervida "utopia", se ci si vuole ancora tenere al più pertinente lessico vittoriniano. Ecco: "Il problema chiave della società meridionale oggi è, più che quello del povero diavolo, quello del completamento dell'integrazione nazionale, quello dell'eliminazione del divario tra Nord e Sud: compito della narrativa meridionalista sarebbe, perciò, più che fare un bilancio degli effetti della depressiopne socio-economica del Meridione, descrivere l'acquisto del "pianeta meridione" di nuove forme di vita e nuove idee e il processo d'erosione che questo acquisto comporta".
Questi, insomma, gli impegni che il giovanissimo scrittore indicava ai narratori meridionali: è stato,il suo, un astratto furore? Per intanto, devo osservare che, entro un panorama in grande movimento, e su un programma di tali ambizioni, Crovi poteva denunciare, con non poche ragioni, certi fallimenti: quelli di coloro (ed erano tanti) che si fermavano all' "illustrazione sociologica d'una realtà meridionale prefissata, schematica", magari per opporre positivamentre "un'etnografia e un folklore progressivi" alla propria concreta esperienza storica. Ed anticipando persino di qualche anno il coetaneo Asor Rosa, Crovi già registrava, nella narrativa meridionale, consistenti tracce di populismo: soprattutto quella che si volgeva alla rappresentazione d'un mondo contadino per celebrarlo al di fuori della Storia, quanto ad un suo naturale e religioso senso della vita, ora minacciato da una civilizzazione solo corruttrice. Ma il giovane Crovi credeva (o forse solo sperava) che il Sud migliore e progressivo avrebbe potuto partecipare, mercè la sua nobile tradizione culturale, ad un vero e profondo processo di integrazione nazionale, fondato su chissà quale crescita civile complessiva. S'è vista poi come è andata: e sarebbe stato proprio il Nord, che Vittorini anveva mitizzato, ad intraprendere un cammino in direzione di quelle piccole patrie che, appena vent'anni fa, solo pochissimi avrebbero potuto immaginare politicamente all'ordine del giorn, dei nostri giorni. Di lì a poco, in quei molto euforici ed illusori anni Sessanta, Pasolini avrebbe cominciato a parlare di mutazione antropologica ed omologazione: per un'integrazione che si dava già, sì, ma nella rovina ambientale, nella decadenza civile e politica. E nessuno scrittore meridionale di quelli studiati da Crovi avrebbe potuta raccontarla: solo quelli nati negli anni Cinquanta inoltrati, per i quali la modernità - né valore né disvalore - era da subito, e semplicemente, uin mero fatto. Se volete, un mome lo faccio: ed è quello del lucano Gaetano Cappelli, lucido e feroce, esilerante, vitale senza vitalismo, in un romanzo come Volare basso (1994), per un Sud privo di folklore e sin troppo modernizzato, e senza vittimismo.
Per tutte queste ragioni non posso non indicare un diverso diagramma letterario, a riconoscere la migliore narrativa meridionale in quella che ha da subito scritto in stato d'allarme: certo, rispetto a Crovi, ho il facile vantaggio del senno di poi. Ecco, allora, De Roberto: che ha demistificato immediatamente tutti gli ottimismi della nuova Italia, quandio gli integrati e supremi stilisti del Nord (i Cagna, i Faldella), ne celebravano già le sorti magnifiche e progressive. Ecco, quindi, Leonardo Sciascia con la sua "Sicilia come metafora"; per un'isola che gli diventò subito la pietra dello scandalo della mancata democratizzazione nazionale. Ecco, infine, Vincenzo Consolo: la cui oltranza prosodica pare l'ultima partita civile che ci resta da giocare. Si tratta dei testimoni d'una disintegrazione antropologica: e carissimi a Crovi, anche in questo suo affabilissimo Diario del Sud, così aperto alla speranza, nonostante tutto. Quella speranza che, purtroppo, non riesco a fare mia.