L’abbondanza perduta del tempo senza fine, di Giorgio De Rienzo
In brevi prose Raffaele Nigro propone, con movimenti di scrittura diversa, memorie e momenti di vita interiore oppure affonda lo sguardo in segreti d’anima per scrutarli però con discrezione. Si incomincia con un allegretto, dove lo scrittore tratteggia un ilare ritratto della propria maturità reale che si oppone a un istinto naturale di perpetua giovinezza e dà figura a un Cerbero che lo costringe a cambiare il suo rapporto con il tempo: «Prima lo trattavo come l’acqua del rubinetto. Adesso lo tratto come se fosse vino. Penso che più in là imparerò a centellinarlo come olio». Poi viene un andante con moto, in cui si esplora la passione (e il bisogno), ma insieme la paura del buio. «Cerco il buio come zona franca, luogo che libera dei contorni, si ovatta di silenzio, cancella le brutture e assolutezza in piccoli spazi gli oggetti», scrive e tuttavia confessa che nel buio la sua solitudine s’ingigantisce, fino a farlo scoprire «troppo solo di fronte a un orizzonte sconosciuto che aspetta» di aggredirlo. Si termina con un adagio in cui Nigro riflette sul contrasto tra una ragione caparbia a placarsi nel marxismo e un irresistibile sentimento che lo rende vulnerabile nelle feste popolari religiose: una sorte di «pietà che ci fa umani e che può non avere nulla a che spartire col sacro»; cioè «un incontro con qualcosa che viene da molto lontano, dalla mia memoria o dal mio corpo e che è salutare se mi aiuta a riflettere sul silenzio da cui proviene e sull’infinito dubbio verso cui vado».