Renato Barilli, La neoavanguardia italiana

27-04-2008

Barilli e l'arte contemporanea, di Toti Carpentieri

In una serata di incredibile “effetto domino”, accade che la riedizione di un volume che parla della neoavanguardia italiana, inneschi una serie di incontri e solleciti altrettante riflessioni.
Tutto nasce da La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del “Verri” alla fine di “Quindici”, il saggio di Renato Barilli edito a Il Mulino nel 1995 (un’opera fondamentale per la conoscenza della storia letteraria e culturale dell’intero Novecento) e ripubblicato da Manni, occasione per una conversazione con l’autore su “Le ragioni dell’arte contemporanea” in programma nell’aula magna dell’Accademia di Belle Arti e per la successiva presentazione-riflessione sul libro ai Cantieri Teatrali Koreja insieme con il collega della Gazzetta Nicola Signorile. Ma anche pretesto per un dialogo con Barilli, rammentando Bologna e gli anni Sessanta, quanto mai vivaci e irripetibili tra avanguardie e neoavanguardie (il Gruppo ’63), tra fisionomie note e in gran parte ormai perdute quali Dino Gavina, Momi Arcangeli, Giorgio Morandi, Oria Fellini, ed altre ancora vitali e stimolanti: da Pozzati ad Ontani, a Sissi. E al docente di Storia dell’arte contemporanea, che si dichiara «seguace di una concezione di materialismo storico culturale, o tecnologico, secondo cui per caratterizzare una fase culturale bisogna chiedersi quale ne sia la tecnologia dominante», poniamo il quesito su cosa vuol dire legare la tecnologia all’arte. «Si tratta – risponde – di una specie di sillogismo: per me tutto parte dalla cultura materiale dell’umanità, cioè dagli strumenti pratici di lavoro per trarne cibo, possibilità di sopravvivenza ecc. Ma la cultura materiale altro non è se non ciò che oggi viene detto tecnologia, dunque ogni manifestazione culturale, tra cui l’arte, è come un ramo d’albero che si leva dal tronco della cultura materiale, ovvero tecnologia. Si noti che ciò vale per ogni manifestazione culturale, non solo per l’arte ma anche per il teatro, la musica, le scienze fisico-matematiche. Però c’è pure un effetto di feed-bach, cioè l’arte e le scienze procedono alla loro volta a influire sul tronco, cioè a mutare la tecnologia di base».
Questo vuol dire che le grandi fasi culturali sono caratterizzate inequivocabilmente dalla tecnologia, ieri la Galassia Gutenberg, oggi l’energia elettronica. E quindi, quali sono le ragioni dell’arte tra moderno e contemporaneo?
«L’età moderna ha visto l’uomo interessato a misurare analiticamente, con la massima precisione, lo spazio circostante, per darne una mappatura fedele. Suoi strumenti sono stati gli assi cartesiani e la piramide prospettica ideata dall’Alberti. In sostanza, si mirava già a dare una svecchiatura fedele, una fotografia della realtà, anche se non si aveva la lastra o la pellicola preparate chimicamente per fissare le immagini. Da qui insomma il trionfo della sindrome realista-naturalista, che ha retto tutta l’arte moderna, da Leonardo fino agli Impressionisti. Ma l’età contemporanea ragiona nei termini dell’elettromagnetismo, le distanze sono bruciate, annientate, il che spiega perché l’arte contemporanea abolisca la prospettiva e schiacci le immagini sulla superficie, o in genere si ha la velocizzazione di ogni dato visivo».
Guardando all’arte contemporanea, quali le sue modalità di manifestarsi?
«Da Duchamp in poi, e con un’accelerazione a partire dal 1968, si è capito sempre più che le vie tradizionali del dipingere e dello scolpire avevano terminato il loro ciclo, si è avuta la cosiddetta “morte dell’arte”, e allora, per collegarsi col mondo in regime di simultaneità, si sono adottati i canali extra-artistici, la foto, il video, o le cose e il corpo stesso, o le espressioni linguistiche, hanno preso il posto delle tracce grafiche o pittoriche su supporto piano, di cui si era servita tutta l’arte moderna, ma anche la contemporanea nelle sue fasi iniziali».
E infine, verso quale direzione essa si muove?
«Quando l’uomo si è smaterializzato in eccesso adottando appunto gli strumenti elettronici, sente il bisogno di ritrovare una tangibilità corporale. È per questo che oggi, accanto alle installazioni e ai video e alle comparse di scritture verbali, vediamo anche un ritorno alla pittura, però pur sempre in edizione estesa, come se si trattasse di dotare il nostro corpo di una pelle, di una cosmesi espansa. Quello che forse è morto per sempre, è il “quadro”, il rettangolo, la finestra aperta per catturare una fetta di realtà esterna. Abbiamo modi ben più reattivi per collegarci col reale».