Renato Izzo, La donna del prete

03-02-2008

Follie e cadute, di Giuseppe Amoroso

«In Sicilia niente è impensabile»: può accadere che le porte di ville patrizie si aprano a un vescovo di grande famiglia che arriva a cavallo «come un guerriero medievale» e «pittura di celeste» tutto il suo casato distintosi per sperperi e dissolutezze. Che una bellissima quindicenne, dagli occhi così lucenti da disperdere «i fantasmi più mostruosi», reciti il ruolo di vittima sacrificale inventato alla perfezione al fine di estorcere un dovizioso contratto riparatore. Che un giovane ricco e bello entri a sedici anni in seminario per il desiderio della madre, ultima erede di una dinastia di vescovi, medici e notai, di avere, prima o poi, un Papa in famiglia. E ancora altre storie di gesti spettacolari, propositi di offesa e distruzione, passioni furenti o silenziose, follie e cadute, che di generazione in generazione mai stancano di tramandarsi, abitano il romanzo di Renato Izzo, La donna del prete (Manni, pp. 204, euro 16,00), specchio limpido e crudele di una materia vulcanica, anche per l'impasto effervescente di lingua e dialetto, e così floridamente autonoma, protetta com'è da un gusto descrittivo disteso con sapienza soprattutto sui tanti squarci di interni, e modellato su stampi caldi sotto lo sguardo dell'autore consapevole di far parte integrante della vicenda che racconta. Un ruolo, il suo, di chi medita su un universo che esce da tanta letteratura isolana e che, dal fervore del laboratorio, assume una propria figuratività dolorosa sotto cui serpeggia un lacerante dissidio venato, in sottofondo, dalla certezza dell'impossibilità, per ogni uomo, di potere «disincagliarsi dal mondo».
Il «maremoto» provocato dall'affascinante intrusa nella famiglia travolge l'io narrante, il giovane prete in lotta con la «consapevolezza» del proprio cuore («un cuore da tenere più a distanza possibile dalla gente, dalle anime e dai corpi da salvare») e sempre più costretto a dibattersi tra fede e amore terreno. Fuori, la città sotto la pioggia è «pazza» e «nera», come l'animo stravolto dell'uomo. Un vertiginoso affanno risucchia ogni cosa: i luoghi dell'infanzia; le figure senza tempo, come quella della madre che muore in un giorno di luglio allontanandosi per sempre «disegnata dalla pioggia»; profili fugaci e imperiosi (da don Paolo sempre vestito «da ultimo Amleto» a Toti, «il più immenso dei siciliani»; da una donna simile a «un giunco pronto a spezzarsi al primo freddo» a un'altra dalla «faccia finta»); l'immagine dei Sette Viali i cui alberi «sembrano chiedere amicizia» e «trasalire» al sibilo dei venti; il ricordo della pioggia, nei lontani inverni, quando picchiettava come «su un vibràfono». E, poi, i volti, scolpiti «come certe figure sacre di scuola napoletana», in arrivo da un passato che, rissoso, s'allaccia all'oggi, con tutto il suo carico di memorie tenere e pungenti e fa vibrare in una donna la dolcezza «come uno strumento indiano». Un turbine di «fantasticherie» si trasforma in una «viva realtà» e una voce sconosciuta non dà tregua. Il dialogo serrato, il drammatico volgere dei fatti, lo sciame dei sismi linguistici chiamato a fare da controluce alle più profonde accensioni dell'io, tengono alta la tensione e la rifrangono in un prisma di colori implacabili ed eterni come il «precipizio» che può separare l'uomo da Dio.