Rescigno-Lerro, Gli occhi sul tempo

01-11-2009

La percezione di sé nell’altrove nel tempo, di Rossano Onano


Mi accosto alla lettura di un libro che raccoglie la poesia di due autori: Gianni Rescigno e Menotti Lerro: Gli occhi sul tempo, Manni, 2009. Gli indizi: il titolo indirizza l’attenzione sulla fenomenologia soggettiva del tempo; gli autori appartengono a generazioni diverse, l’uno (Rescigno) di dichiarata maturità anagrafica e poetica, l’altro (Lerro) giovane ed evidentemente intrepido nell’accostare la propria voce a quella del maestro. Mi aspetto, essendo la pigrizia peccato capitale perfettamente umano, di assistere a due declamazioni sull’agibile vissuto del tempo, l’una condotta dal poeta maturo sul registro nostalgico dell’elegia, l’altra condotta dal giovane su toni perplessi o inquietanti (entusiastici, no: l’entusiasmo è scarsamente praticato dalla gioventù poetica) comunque rivolti al tempo futuro. Leggo, e mi accorgo che c’è dell’altro. Entrambi i testi trattano infatti il sentimento della percezione di sé (essere/esserci) rispetto alle coordinate dello spazio e del tempo (essere qui/ora).
Gianni Rescigno è persona troppo nota perché sia necessario inquadrarlo all’interno di una cornice biografica. Ho già parlato di lui accostando la sua figura, per mio analogismo percettivo inconscio, a quella di San Gerolamo, il vecchio eremita che per amore dell’uomo vive nel deserto predicando ai lettori. L’analogia, mi ha fatto sapere, gli è piaciuta: anche i santi, almeno un poco narcisisti devono essere, ci mancherebbe. Nel testo di cui parliamo, il grande saggio eremita contempla l’apparente
deserto della vita, in realtà recuperando nell’archivio del tempo gli uomini e le donne, le piante gli animali i giorni le notti i sentimenti le emozioni che nel corso della vita hanno attraversato il deserto per fare visita al suo cuore.
Non si tratta di una pura esercitazione d’archivio: è il catalogo dei beni che l’uomo archeologico raccoglieva e disponeva accanto a sé nella previsione del viaggio da qui all’altrove. Il desiderio dell’uomo, in questo, è sempre lo stesso, non c’è differenza fra San Gerolamo e il faraone o il dubitoso uomo d’oggi. La differenza è nella terra d’approdo, e nella calma compiutezza della relazione conclusiva. Rescigno cataloga e raccoglie le vicende del vissuto terreno da offrire all’incontro naturale con Dio: questo è ciò che mi hai dato, a Te che chiami questo è ciò che io restituisco.
La poesia non è solo fenomenologia del tempo (il domani, l’eterno), ma anche e soprattutto fenomenologia del luogo (l’altrove, altrettanto eterno). La scrittura è descrittiva, “nominazione” dei sentimenti e del mondo da rendere a Dio creatore. Nominando il mondo, come Adamo in certo modo,
Rescigno dà nome e storia alla creazione, non per propria appartenenza ma in vista della doverosa restituzione. La poesia descrive così non solo il luogo (l’altrove) e il tempo (per sempre): descrive il “come”, e il senso stesso dell’incontro conclusivo. La meditatio mortis di Rescigno rappresenta, soprattutto, un atto volitivo di fede sul senso della vita e dell’eterna avventura dell’uomo nel
mondo.

Il pane della sera

Tu dimentichi / che s’incontrava Dio / quando il sole col rosso / c’incantava gli occhi / rispetto e timore / in formicolio di sangue / salutavamo il cielo / al tocco di campana / raddrizzavamo la schiena / curva sulla terra / da cui si prendeva / il pane della sera / pregare insieme / a labbra chiuse / era silenzio greve / che si faceva pietre / ma a Lui / la mente s’orientava: era seduto / sulla prima stella / le parole / camminavano col cuore.

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Passaggio

Ora non sarà più il sole / a stupirci con vampate d’arsura / a prosciugare il fiato della brezza / che non sfiorava l’erba secca / tra gli interstizi delle pietre. / Scendono già gli archi vecchi / e sulle vigne i lamenti in cerchio / delle cornacchie, e i vivi rammentano / nomi di morti che l’afa narcotizzò / col non voluto sonno della dimenticanza. / Un vento che già conosciamo ci sveglia: / muove, scuote le corde del pensiero / legato al ceppo d’uno scoglio dove / lo consumava la pausa rovente / dell’estate. Ora la notte ondeggia. / Scende viva come mare che si desta / dalla siesta e si offre in sacrificio / a tempeste per riportarci interrotti / canti di sogni, che riprendiamo a tessere / sulla scia di tribù d’uccelli / mentre provano e riprovano partenze. / Ora incominciamo a rimettere / la luna, le stelle, ogni cosa al proprio / posto per interrogare a braccia aperte / il mistero della vita, per sapere / quando inizieranno i voli delle rondini, / e se i fichi lacrimeranno miele in abbondanza

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Profumi di vecchiaia

Ora di terra bruciata / sanno i nostri profumi. / Ungono amari pensieri / captati da rughe di silenzio /che ci solcano l’attesa. / Ora soltanto a noi / narriamo di questo andare / che si scioglie tra mare e cielo / trasvolando le stagioni. / S’aprono lente le braccia / a tutto ciò ch’è da venire / dal mistero / a tutto ciò ch’è da concludersi / nella sostanza. / Di terra arsa / sanno le mani. / Al bivio di ogni sera / attendono che il giorno /a nuovo paesaggio d’amore / le congiunga.

Mi affido con fiducia alle rappresentazioni inconsce indotte da qualsiasi lettura. Nel caso di Rescigno, l’associazione è stata con la pietosa e violenta crocefissione di Grünewald, a Colmar, ove il corpo di Cristo sanguinante pare sia stato avvolto di spine. Il ladrone sulla destra, nella mia rappresentazione,
ha il volto di Gianni Rescigno. È da spiegare il perché dell’associazione mentale ladrone/poeta, e francamente non so. Probabile che la ragione sia questa: se Rescigno si appropria della rappresentazione del mondo e tale rappresentazione restituisce a Dio, in certo senso si è provvisoriamente impossessato del mondo, un furto d’uso alla fine riconciliato con la doverosa restituzione all’Eterno. Il ladrone di destra, nel volto le rughe antiche di Rescigno, si rivolge a Cristo e dice: Ecco, quanto ho rubato, io ti rendo. Ricordati di me, altrove, domani. Il volto di Cristo, piegato sullo sterno, lievemente si volge a destra, e sorride. Non è possibile compiere la stessa operazione per il ladrone di sinistra, che l’accostamento dei testi mi forza a riconoscere nel secondo autore, Menotti Lerro. Immagino sia sprovvisto di rughe, è nato nel 1980, che è età giovane per la poesia. Perché abbia accostato il proprio testo a quello di Maestro Rescigno, per professata ammirazione o per implicita sfida o per entrambe le cose insieme, io non so. Certo, non per esercizio di scuola. La sua parola ha vocazione diversa da quella del maestro. Mentre Rescigno nomina la realtà per ordinarla, Lerro la nomina per bruciarla, dissolvendo il senso soggettivo del tempo e il senso stesso dell’esistenza. Le cose, appena nominate, non appartengono all’uomo più di quanto gli appartengano le illusorie immagini di un sogno. La parola non posseduta diventa essa stessa ombra o sogno, comunica in primo luogo la perdita del corpo di colui che la pronuncia. Se la parola non nomina e non crea, l’uomo non è partecipe della realtà, oggettiva o immaginifica che sia, ovvero l’uomo non esiste. L’assenza della parola nominante coincide con l’assenza del corpo di colui che nomina. Esita e fluttua nel vuoto, voce declamante nel deserto. Come una preghiera, in fondo.

Nulla ci appartiene / se non i sogni / le immagini confuse della notte, / le voci che più non distinguiamo.

Che ne è stato di quel chierichetto, / dei giochi coi gatti al sole? / Dove sono le preghiere confidate ai marmi,
le ostie sciolte con le penitenze? / Tutto è nebbia che avvolge le ossa.

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Ora che i miei occhi cercano la sola trave al risveglio… / ora che addormentarsi non è più profumo di muschio bianco, / ma uno scorrere distratto di pagine… / ora che la gente per strada non mi guarda / con l’invidia riservata a chi si ama, ma con gli occhi regalati / alle anime che dividono il sentiero con le ombre… / ora che il bagno è sempre libero e nell’armadio /
non manca spazio per i vestiti…

Al secondo ladrone della crocefissione di Grunewald non adatto il volto di Lerro, che non conosco.
Egli ha rubato dal mondo la speranza. Non avendo il possesso delle cose e del tempo e del suo stesso corpo legato al tempo e alle cose, il ladrone offre all’Uomo di mezzo soltanto una cosa: la cognizione del dolore, e la parola che ha il coraggio di pronunciarlo. L’Uomo di mezzo volge infatti a lui il volto e ugualmente sorride, dice: Anche tu con me, anche tu, amico mio. Il confronto o sfida generazionale fra il maestro di poesia e il giovane allievo è svolto sul piano della metafisica esistenziale, a ruoli invertiti rispetto ai canoni convenzionali correlati all’età. Il vecchio nomina gli oggetti, il luogo, il tempo. Il giovane rinuncia a nominare, così rinunciando alla collocazione di sé all’interno di un tessuto spaziale e temporale significante. Differente caratterialità, forse. Oppure, forse, espressione di un differente
approccio della collettività generazionale alla percezione dell’uomo come essere capace di dare senso alle cose del mondo, e alle cose del cielo. Quanto a resa espressiva, sono ovviamente diversi nei due autori il ritmo e il calore della parola. Scorrevole e caldo in colui che nomina il mondo e il tempo, spezzato e ghiacciante in colui che li nega. Filo adesivo fra i due: l’assenza di significazione attribuita ai contingenti avvenimenti della quotidianità. I due ladroni, infatti, con diversa disposizione dialogano
unicamente con Colui che ascolta, in un altro luogo, in un altro tempo.