Rescigno-Lerro, Gli occhi sul tempo

01-06-2009

Due canti simili e diversi, di Giovanni Chiellino

“Sono un uomo solo, notturno uccello di pensiero, / ladro di chiarore lunare”.

Così inizia la poesia Un uomo solo e termina: “M’avvio al silenzio. Apro il libro del mistero / e non trovo parole, ma leggo”. Un testo che contiene tutta l’essenza del disegno scritturale di Rescigno e dove egli esprime la complessità del suo essere uomo e poeta, racconta il suo viaggio in solitudine, ma aiutato, lungo il sentiero della vita, dal volo del pensiero, dalla tenue luce del sogno, dal canto poetico. Egli avverte il “trapasso del giorno” e le rughe del suo viso parlano del tempo, si fanno voce narrante di epoche passate, finestre aperte sul futuro. Visione reale e visione di mondi altri si alternano nello sguardo che indaga le immagini riflesse dallo specchio dell’esistere. Mentre il mondo terreno si addensa e i bassi orizzonti della sconfitta, del dolore e del morire franano, si alza la luce della fede e il divino schiera gli alti e infiniti orizzonti del perdono e della salvezza dove lievita il “pane dell’amore” che l’uomo giusto e saggio porta tra le mani per farne dono a tutta l’umanità che, cieca, non sempre raccoglie l’offerta e vaga nelle tenebre del disamore. Lo sconforto assale il poeta, dinanzi al lui si aprono i deserti del silenzio, vuoto è “il libro del mistero”, ma largo l’occhio del sogno, lucente la sillaba della poesia, alta la fiamma della fede e l’ignoto si mostra in traiettorie d’infinito, compone feconde aspettative in eterno. Quasi assopiti nella magia del canto disteso e profondo di Rescigno, assorbiti dal chiaro raccontare della sua voce, ci sorprende improvvisa una nota diversa, ma altrettanto limpida, un dire rapido ma che coinvolge, incisivo perché conciso e posto sulla corda della scoperta che deve essere comunicata e per questo reclama l’ascolto. È il canto di Menotti Lerro che si domanda e ci domanda “Dove sarà mai la luce promessa? / Dove si nasconde Dio?”. Chiusa fra questi due versi,
scorre l’umana avventura, tra una domanda e l’altra si apre il sipario dell’esserci. Si susseguono i dubbi e le certezze, la paura e il coraggio, la gioia e il pianto, l’odio e l’amore, il precario e l’eterno.
Perché la poesia di Lerro, mentre ci descrive il continuo frenare dell’orizzonte esistenziale: “Ci sgretoliamo giorno dopo giorno, / come i pensieri e le ossa”, tiene fermo l’occhio nella concavità del cielo per: “Partire, sciogliere il nodo, / alzare al vento la vela verso nuove terre / lì dove le mappe non hanno riscontro” e per “Gettare lo sguardo oltre / la falsa luce del giorno”.
Il ritmo scritturale si adatta al disfacimento dei corpi, all’inquietudine dell’anima, alle incertezze del pensiero, per cui incalza, corre, trova una pausa, riprende, le domande martellano le tavole del non saputo e il linguaggio si fa “demoniaco e risentito, di continuo spezzato e rifratto, com’è naturale che
sia per l’ira a stento trattenuta, per la rabbia repressa” (Walter Mauro).
Alla fine della lettura ci rendiamo conto di avere ascoltato due canti simili e diversi. La corrispondenza consiste nel percepire il mondo dei fenomeni e delle metamorfosi, della sofferenza e del passare, ma anche nel cercare vie di fuga e di salvezza in una eventuale resurrezione in un oltre di luce e di armonie, “La stagione di malinconia ha occhi di rondini / che migrano stanche a fuochi d’infinito”; “dammi o Signore il miraggio / della speranza nell’aspettazione / della rinascita di ciò che perdo”, (Rescigno); “Un giorno anche i miei occhi saranno stelle / lucenti e silenziose nel nero della notte”; “Gettare lo sguardo oltre / la falsa luce del giorno”. (Lerro). La diversità si evidenzia nella compostezza dello sguardo, nella assennatezza di accettare il peso della ricolma bisaccia da portare tra sponda e sponda del tempo relativo e nella calma attesa del dopo per certezza di fede nel più maturo Rescigno; nello sdegno per un dono che doveva essere giusto, amabile e gratificante e invece “crea solo / ombre di cose, di corpi morti, impolverati / e fradici”, riversa angoscia, silenzio e vuoto per il più giovane Lerro che spontaneamente veste gli abiti di un moderno Giobbe senza che ci sia, il più delle volte, l’ingombrante presenza del Padre a cui urlare il proprio dissenso.
Le prefazioni di Giorgio Bàrberi Squarotti e di Walter Mauro completano la già eccellente fattura del lavoro dei due attori avvolgendola nella luminosità e nella puntualità della loro sapienza critica sempre folgorante e rivelatrice dei tragitti che l’io poetico percorre per aprirsi in parola e farsi canto.