Il merito della fragilità, di Giovanni Fierro
“Delle vocali l'azzurrità” è proprio un bel libro.
Mi piace dirlo, e scriverlo, perché mi sembra che, quando qualcuno è capace di generare bellezza, è giusto sottolinearlo. E parlarne.
E, in aggiunta, queste pagine sono anche una continua riflessione sullo scrivere (“è sola la scrittura?”, si domanda l'autore in un passaggio).
Perché, come si fa a non rimanere incantati, di fronte ad un passaggio come “fuggite a rallentare il silenzio”?; è una invocazione che crea profondità di tempo, e intensità di futura ed umana passione.
Il libro, pagina dopo pagina, si muove con giravolte, a volare, a trovare l'equilibrio più coraggioso. Quello più prossimo alla fragilità, quella di ogni giorno, quella che ci tiene uniti, nello stare al mondo.
Qui avverto anche una luce tenue, che tiene assieme il giorno e la notte, li sfuma uno nell'altra, e viceversa; una luce che si muove come una marea, che sale e scende, lenta.
Queste poesie sono da leggere sottovoce, sotto silenzio, sotto luce. Sono poesie a cui volere bene, da tenere al caldo.
Creano un luogo prezioso, dove la magia ha la verità della bellezza.
Entrerò nel silenzio delle foglie, avrò
corde d'aria al collo e giocattoli
aspri come spine. Non avrò mani
per cucire il vento.
9 gennaio 2007 ore 22.45
“Entrerò nel silenzio delle foglie'; ma allora è un silenzio che nasce, proviene da una radice, dalla terra stessa, è un qualcosa di grande e di ampio, un abbraccio a cui volere destinarsi.
E solo così, penso, Roberto Lamantea riesce a dare visibilità, con le parole, a ciò che di epifanico si mostra e ci sorprende ogni giorno. Nel profondo di ciò che si vive.
Questo suo scrivere gli dà forma, gli permette di essere comunicazione e condivisione.
Sì, perché qualcosa che di solito ci sfugge, in 'Delle vocali l'azzurrità' è invece colto, quel qualcosa che chiede attenzione e cura.
Ogni singola poesia sa essere delicata, ma sotto la pelle mostra una forza che ha che fare con la determinazione dell'autore, il suo desiderio di trovare queste parole e queste immagini, a trasmettere al lettore la vita, nella sua intensità.
Buonanotte, mia solitudine.
Buonanotte a te.
Buonanotte all'ultimo raggio
della lampadina elettrica.
Buonanotte a quella luce
malata di nuvole
che ti dice svègliati, è ora.
Buonanotte ai sogni
batuffoli ghiacciati che sfumano in un caffè.
Buonanotte ai sogni che farò
ignari di non essere vivi.
Buonanotte al legno del letto.
Buonanotte a me, al mio
molle
arrendermi.
8 maggio 2006 ore 22.50
In ogni momento di questa raccolta, con 'forza' Lamantea mette in parole sentimenti ed intuizioni, intensità fuggenti e promesse di gioia.
Il suo scrivere ad ogni pagina si fa accarezzare, si trasforma in respiro, alimenta il cuore.
E così, piano piano, le sue poesie costruiscono una 'durata', un invito alla virtù di quando si vive le proprie emozioni. Senza paura.
'Delle vocali l'azzurrità' è un continuare a preparare un bocciolo, tanti boccioli, ed invitarlo, e invitarli, ad aprirsi. A donarsi.
L'intervista:
Del nostro tempo, il tuo libro cattura la fragilità, e ce la pone con poesia e invito alla condivisione: è così?
A volte penso di non amare il nostro tempo. Mi trovo, per sensibilità, per la natura delle mie rêveries, in un senso di inappartenenza che mi porta a chiedermi: a quale tempo appartengo? E la fantasia va al primo Novecento. Forse per troppa letteratura, per un cinema raffinato, per l’eleganza della scrittura e dei personaggi degli autori che amo (tanti, da Thomas Mann a Virginia Woolf, e Proust, come non nominare il poeta dei profumi, del tempo che ci rivela?) sento di appartenere a un mondo che non è questo, ma è più delicato, è fatto di sfumature, trasparenze, silenzi sospesi, sguardi più ricchi di un romanzo. Sento il nostro tempo violento, volgarissimo, il suo stile è il ghigno o lo sghignazzo.
Eppure vivo il mio tempo, lo leggo, lo respiro, è ovvio. Per questo sento questo tempo così fragile. Condivisione? Sì. Chi scrive versi e li pubblica invoca l’altro. Lo chiama.
e il sole cantava
con la sua voce ruggine,
le spine del sole erano bianche.
11 agosto 2006 ore 13.14
Quali le parole che usi per raccontarlo?
Credo che il linguaggio abbia vita propria, che non sia l’autore a decidere - almeno non del tutto – toni e registri.
Credo che il mio tempo entri in ciò che scrivo attraverso colline fonico-ritmiche: da un lato sogno, mi isolo, canto, mi dondolo, sorseggio parole, come in un incanto teatrale, quindi apparentemente rifiuto il tempo della società e della storia; dall’altro il nostro tempo irrompe nel verso, lo taglia, lo sbrega come si dice in dialetto veneto: è l’ironia, anche irridente, su chi ha «la Ferrari nell’aja / e il formenton in banca», il Veneto (l’Italia) dei schei; i neonati preconfezionati nel cellophane come fettine di pollo al supermercato, «nel Veneto che fu bianco ed ora stanco / è oltre l’azzurro e le colline / e le dolòmie prealpine / e i lacustri argenti gli armenti». Mi cullo, balocco, ho nostalgia dell’amnio, della bambagia del silenzio; ma ascolto e registro tutto. Il teatro del proprio tempo è sempre in scena e genera parole quando non le attendi.
La tua è anche, difatti, una profonda riflessione sullo scrivere, scrivi «è sola la scrittura»: cosa intendi dire e chiedere con questa domanda?
Leggere e scrivere è un atto solitario: sono io (tu) e la pagina scritta; io (tu) e la pagina su cui scrivi. Scrivere è disegnare parole, ed è una meravigliosa solitudine: è quella della propria anima (vocabolo e metafora che amo sopra ogni altra: pronuncia questa parola: anima, è puro fiato), è il linguaggio che mi parla e genera non solo la scrittura, cioè la musica della fonesi, la danza del ritmo delle parole, ma anche il pensiero.
La poesia è come la danza: i gesti non parlano, alludono; i suoni, le labiali, le palatali, gli accenti, le immagini, i colori, perfino i profumi della poesia alludono.
Come nella danza: che cosa sono quei corpi storti, spastici, che urlano il silenzio, che invocano l’altro o dio? Mi emozionano, mi leggo in loro, piango commosso.
Erano solo gesti. Eppure mi hanno detto tutto quello che provo per il nostro tempo, la nostra solitudine, la nostra voglia di vivere. Così è la poesia: è come la danza, spalanca una serie infinita di possibili letture. La solitudine della scrittura alla fine abbraccia il mondo.
Eri, e rara luce
lumava slimava in oro
in oro-gioiello oro-castello
di languide nevi
La neve ricordo
la neve mordo
dell'oro e dell'ieri
16 maggio 2007 ore 22.35
In queste tue pagine si nota la fiducia che dai alla bellezza, alla certezza della sua presenza, sempre e comunque.
Questa annotazione è bellissima: fa parte di quella bellezza di cui parli. Sì, ne sono assolutamente convinto. Tralascio cosa sia il concetto di bellezza: la Pietà di Michelangelo, le terzine di Dante, Hieronymus Bosch, Friedrich (lo amo sino al tremore, vorrei passeggiare nei suoi quadri), la magia misteriosa di Magritte. I versi di Shakespeare, che non riesco a leggere senza piangere per l’emozione. Un verso dell’espressionismo tedesco per me stupendo: «La luna camminava sui tetti con la sua gamba di legno».
Ma anche una donna nigeriana che aveva annodato sulla schiena, come in un marsupio alla rovescia, il suo bambino. È salita sull’autobus con me, ha abbracciato il figlio, si è seduta, ha scoperto un seno e lì, sull’autobus, lo ha allattato. Poesia immensa.
O il canto di un merlo. L’ultima traccia della luce. La pagina ingiallita di un vecchio libro che ami. Un ricordo che vola improvviso, come sorpreso nel suo sonno. La bellezza è ovunque. La bellezza è essere nel mondo nonostante ogni orrore.
E anche il silenzio sembra diventare valore irrinunciabile...
Il silenzio è la voce della bellezza. Ovviamente il silenzio non è assenza di suoni. Il silenzio è fruscìo, bisbiglio, luce, penombra, un ricordo che vola improvviso. È la pioggia, che amo ascoltare. E il silenzio è rivoluzionario. Il silenzio è quanto di più raro possiamo trovare. La nostra è la civiltà del rumore: martellante, ininterrotto, ossessivo, voluto fino al terrore di perderlo.
Ogni poesia ha data e ora: perché questo “cucire” i tuoi testi nel loro preciso momento dell’accadere?
Non ricordo come sia nata questa abitudine, che seguo da molti anni. Sento l’assoluto bisogno di annotare il giorno e l’ora in cui ho scritto la prima stesura di un testo (che poi naturalmente, prima della pubblicazione, avrà infinite varianti). Forse perchè ho bisogno - credo per la mia fragilità, o per la percezione della fragilità delle cose - di fermare quell’attimo, quasi a dargli corpo. In quell’attimo - quel giorno, a quell’ora, l’ora è quella precisa in cui ho finito di scrivere quel testo – qualcosa è nato in me. Quel giorno a quell’ora ero vivo.