Letteratura come gioco, un circo più che teatro, di Milva Maria Cappellini
Un’etichetta è sempre, per definizione, al tempo medesimo vincolante e approssimativa, pesante e inconsistente. La pur amabile qualifica di «scrittore per bambini» non soddisfa Roberto Piumini, poligrafo e prolifico scrittore tout court, di prosa, poesia, teatro, e ancora traduttore e performer, sperimentatore di codici e forme espressive, di inedite prossimità e collaborazioni tra arti e linguaggi. Le opere infinite è il ventesimo «oggetto letterario», rivolto a lettori adulti, dato alle stampe da Piumini. “Stilos” lo ha intervistato.
Lei si sente un poeta o uno scrittore?
Sono un contadino delle parole. Sono un poeta, fondamentalmente. Non so come sia accaduto. È ovvio, ci sono molte piccole teorie divertenti che spiegano solo una piccolissima parte di quello che probabilmente ha agito, ma che senz’altro qualcosa contano. Per esempio, la qualità di lingue e dialetti che da bambino mi giravano attorno: nella Valcamonica nativa sentivo e capivo, ma non parlavo (e questo forse è importante, che le lingue di allora io le capissi ma non le parlassi), il camuno, che è un dialetto cimbro-teutonico; sentivo e capivo, ma non parlavo, il dialetto dei miei genitori, che invece è di tipo tosco-emiliano; sentivo, ma non parlavo e non lo capivo nemmeno, il latino che allora si usava in chiesa. Invece sentivo, capivo e parlavo l’italiano, che è stato dunque la mia lingua madre. Parlavo l’italiano dei miei genitori, un italiano popolare, e l’italiano della scuola e soprattutto l’italiano della radio, che probabilmente è una delle matrici della mia poesia. Io sono stato fatto letterariamente dalla radio, dagli ascolti radiofonici ricordarti con grande commozione, le commedie del venerdì sera ascoltate nella cucina con la madre vicina, che sferruzzava a maglia (psicanalista in ascolto, vai all’inferno!) nell’odor della minestra e nelle parole della radio. E quindi la vocazione poetica potrebbe nascere anche da questo: la poesia, parola parlata, parola ascoltata. E sempre a questo potrebbe risalire anche l’oralità del mio scrivere, la mia scrittura che è, mi si dice, molto ascoltabile, che si sente suonare nelle orecchie. Me lo dicono sia i lettori, per l’ascolto interno, sia i musicisti che hanno lavorato con me, e che mi ripetono che le mie parole, non per una loro sintatticità bensì per una loro qualità fonetica, sono molto adatte alla musica di altri. E io sono convinto che in questo la radio abbia contato moltissimo.
Però il paradigma dell’arte –l’arte per eccellenza– sembra, spesso nella sua opera e anche in quest’ultimo libro, Le opere infinite, non la musica ma piuttosto l’arte figurativa.
In effetti ho scritto tantissimo –sia per i ragazzi sia per gli adulti– di vicende che riguardano la pittura, pur non essendo né particolarmente appassionato, né particolarmente esperto, e assolutamente non pittore né illustratore. La risposta che provo a darmi è questa: volendo evidentemente scrivere della creatività e dell’espressività, e non volendolo e non sapendolo fare a proposito della scrittura (diciamolo, scrivere della scrittura è imbarazzante), il campo più prossimo e anche più fecondo, per me, è proprio quello della pittura. Meno la musica, meno altre arti. In sostanza, io scrivo di pittura per parlare di scrittura. E poi c’è la fascinazione del pittorico, che permette viaggi nelle epoche, si porta dietro i tempi e le cose più della letteratura, che in fondo è sempre una faccenda un po’ astratta. Allo scrittore, per quanto sia contestualizzato, basta uno scranno e un foglio, invece il pittore no, deve rimanere fedele agli ambienti, ai materiali, alle commissioni, a tutto un mondo che è senz’altro seducente. Per questo parlo di pittura: per parlare d’arte senza fare metaletteratura.
D’accordo, niente metaletteratura: però c’è molta metalessi nella sua scrittura, c’è di frequente un discorso interlocutorio con il lettore.
Sì, di frequente e con un certo compiacimento. Pensi che Di Rienzo, in una delle non molte recensioni (e qui ci sarebbe un lungo discorso da fare, ma lo faremo in un’altra vita) su un racconto che io amo molto, Il ciclista illuminato, affermò più o meno: «Questo racconto sarebbe perfetto se l’autore non si divertisse, con questa maniera iperletteratura, a chiamare in causa il lettore, con continue captationes». Quando lessi questa critica feci spallucce, e mi dissi: «Ma perché no, in fondo è un gioco, lo faceva Manzoni, perché non lo posso fare io?». Adesso che (dato che mi dispiace che muoiano prima i miei racconti di me) mi pongo il problema puramente artigianale di recuperare questo racconto il quale, per la mia assoluta incapacità di gestione editoriale, si è perso nel nulla, potrei anche accettare di eliminare questa metalinguisticità. Non ho più, ormai, questa urgenza giocosa, che peraltro credo sia una estensione raffinata della formalistica fiabesca del «C’era una volta», «Cammina cammina» e «Devi sapere che» che mi piace conservare, naturalmente in chiave ironica. Anzi, questa potrebbe essere, dal punto di vista dell’attanza testuale, una delle due caratteristiche della mia scrittura: la presenza più o meno palese e deliberata dell’interlocuzione, direi nient’affatto nascosta, dell’intertestualità poesia-prosa, che nasce verosimilmente dal mio desiderio di scrivere solo in un modo, cioè in poesia. Quando i bambini mi chiedono, durante i miei incontri con loro, «Cosa sceglieresti tu se dovessi scegliere?», io do sempre la risposta corretta ed educativamente giusta, che non bisogna scegliere e così via. Però poi magari io stesso provoco i bambini: «Ma se tu mi obblighi col fucile a scegliere, io scelgo la poesia perché credo di essere più poeta e poi perché i giochi che si fanno con la poesia comprendono anche tutti gli altri giochi». Poi, è chiaro, per campare bisogna scrivere tanta prosa. Anche se, stranamente, alla fine sono riuscito a far fruttare pane anche dalla poesia.
Bisognerà pure affrontare, a questo punto, la questione della specificità della letteratura per bambini, non crede?
Questo è un discorso complicato. È giusto dire, secondo me, che la letteratura per bambini non esiste. Esiste l’editoria per bambini come fenomeno editoriale, ma questa è un’altra faccenda. Ed esiste una letteratura che si fa leggere, con profitto e con codici scalari, anche dai bambini. Allora, un altro modo per dirlo è: esiste la scrittura buona e quella cattiva (e sarebbe bello che fosse tutta buona). Nella scrittura buona ci sono certi tipi di testo che, intenzionalmente o surrettiziamente, come Pinocchio o altri, pian piano diventano classici e vengono assorbiti e consumati dai bambini. Sono testi che, a parità di dignità letteraria, per una loro natura di codice –poi si può vedere in che cosa consista questo codice: io qualche idea ce l’ho, ma sono convinto che un linguista ne ha di più– sono fruibili dai bambini. Come ipotesi quasi giocosa, alla domanda semplice: «Quali sono quelle condizioni del discorso letterario che rendono un testo di per sé valido e adatto a un bambino, nel senso che un bambino lo legge con profitto?» posso provare a rispondere: il gioco, tanto per cominciare, però il gioco esplicito. Perché, si sa, la letteratura è sempre gioco, è solo gioco, però è gioco coperto, gioco nascosto, da decrittare. Quando il gioco –nelle sue forme materiali, fonetiche, come ripetizione, sonorità, rima esplosione– diventa esibito, fa circo invece che teatro raffinato, ecco, diventa un tratto della letteratura per bambini. Lo stesso vale per il corpo, secondo me. Una poesia è sempre e soprattutto corporea, lo sappiamo, è il più corporeo di tutti testi, però anche qui il corpo va scoperto e decifrato. Se la poesia contiene il corpo in modo amichevolmente esibito (che non vuol dire in modo rassicurante o involuto, ma in modo a sua volta giocoso e non difficile e non minaccioso), ecco, diventa profittevole per un bambino. È, in generale, una questione di esplicitezza.
La semplicità è un altro possibile criterio di definizione della letteratura per bambini?
Certamente, ci deve essere anche un patto si semplicità, ma della stessa natura del patto di semplicità che si stabilisce quando si gioca fisicamente con un bambino: non si creano strutture e regole di comportamento che per lui non possono essere. Una volta stabilite le regole, però, si va fino in fondo: con semplicità, non certo, con povertà. Credo che questa sia la differenza tra la buona letteratura per bambini e una certa letteratura malvagia e regressiva: e intendo anche malvagia al secondo livello, cioè una letteratura che pur avendo superato l’ingenuità brutta dell’educazione mascherata, tuttavia giochi con riserva, non si lascia andare alle conseguenze di se stessa una volta fissate certe norme di comprensibilità che non sono solo linguistiche, sono anche psicologiche.
Veniamo alla letteratura «da grandi». Come è nato Le opere infinite?
Come sono spesso i miei libri, è un libro composito, prima di tutto perché sono due racconti, di natura diversa. Il primo, Il quadro non finito, è stato scritto recentemente, un paio di anni fa, ed è anche questo un gioco: io adoro i mimetismi letterari, quindi quando scrivo un racconto mitologico adotto uno stile arcaizzante, quando scrivo un racconto storico manzoneggio, e così via. In questo caso, mi tentava una storia di sottile conflitto tra due persone, un artista logoro e dannato, e un collezionista puro e civile, sulla quale innestare un discorso sull’arte, sulla proprietà dell’arte e dell’oggetto artistico. Come luogo di esercizio di questo discorso ho scelto una Parigi di fine Ottocento e uno stile più classico possibile. Un interno flaubertiano. Il secondo racconto, Il pianto di Piero, che mette in scena il laboratorio lauretano di Piero della Francesca, è la riscrittura di un racconto già pubblicato insieme ad altri in un libro cosiddetto «per le scuole medie» che si intitolava Uomini con figure, una raccolta in cui partendo da spunti di Vasari ho fantasticato su questioni di pittura e cose d’arte. Due di questi racconti erano già riapparsi in un volume di Einaudi, Filippo a Prato, che raccontava la seduzione operata per il tramite di un ritratto da Filippo Lippi nei confronti di suor Lucrezia Buti, e il ritratto segreto che immaginava Gentile Bellini, convocato da Maometto II ufficialmente per realizzare il ritratto del sovrano che oggi si vede alla National Gallery, ma in realtà per eseguire il ritratto notturno e occulto di una bellissima amante.
Entrambi i racconti delle Opere infinite ruotano attorno al tema dell’incompiutezza, ma sono anche percorsi da una vena nera, quasi di morte.
Premetto che il noir non mi piace. Però è innegabile che esista nei miei libri una traccia di cupezza, una malinconia legata, secondo me, a un mio dato personale. Credo che la mia inclinazione alla malinconia (una sorta di scarsa resistenza, se non si è sorvegliati, all’invasione dell’idea di fine o di morte) si intraveda anche nella scrittura, persino in quella per ragazzi.