Rossano Pestarino, Lune d'Honan

01-10-2013

L’almanacco della poesia italiana, di Mauro Ferrari

Rossano Pestarino giunge a un maturo esordio con una raccolta densa e originale, inscrivibile in una certa linea orfica, di poesia opaca e a tratti oscura da cui però si distacca per un uso parco della metafora; può essere proprio questo il tratto che la contraddistingue e che apre a sviluppi futuri che si annunciano come estremamente promettenti. Lune di Honan mostra una vena solida, colta e raffinata (d’altronde, è ricercatore all’Università di Pavia), nel ritrarre un mondo statico, congelato in attimi di fissità mentale e sofferta pensosità; ma è anche una raccolta garbatamente ironica (dunque, auto-ironica), ricca di spunti arguti e concreti, e mostra quindi una rimarchevole ricchezza di visione. Si tratta di una visione che sorge dalla constatazione, bene evidenziata nel bellissimo testo iniziale (quasi un omaggio ai granchi di Federico Italiano) che culmina nella laconica chiusa «le nuove generazioni presto / passeranno come un fiume di sangue immemore / già condannate al medesimo scempio vitale.» Consapevolezza ontologica, certamente, ma che lascia intravedere nel poeta piedi saldamente ancorati al reale, o meglio alla realtà contemporanea – difficile non leggere, qui e in tanti altri tableaux di vita cittadina, accenni a una contemporaneità congelata e senza sbocchi. Così, «i magri polli a balzi brevi / arrancano senz’ali« (Periferia) e nella pagina a fronte «supponiamo / tutti d’essere morti». È un universo di assenza, trasparenze, mancanze, perdite (splendida la poesia sul padre), in cui la realtà di dà per indizi ambigui e incomprensibili, con piccoli gesti e presenze insensate: «Viene un’ansia / di confrontare orologi, / bere ancora un po’ e rialzarsi», come se la festa della vita a cui siamo invitati non ci riguardasse, e ne fossimo solo testimoni casuali. «Scende l’anima mia tacita e bruna»: l’endecasillabo pregiatissimo, di matrice squisitamente romantica, ci dice dell’atteggiamento della persona che attraversa la raccolta, un Io che sopravvive come Es come viene ribadito dall’ipercolto calco ungarettiano «la morte sprecata vivendo», in cui non è casuale intravvedere una distanza di parodizzazione: se per Ungaretti era la morte (degli altri) a far maturare il senso di colpa di chi rimaneva, in Pestarino la morte (personale) acquista valenza quasi positiva di fronte a una vita inautentica condotta comunque all’entropia. Esiste tuttavia un momento di riscatto, edenico, o almeno di fuga: la seconda sezione, Leibquartett), decisamente più lieve e persino rapsodica nel tono, è quella che dà il titolo al volume; una sorte di quiete atarassica la permea, come se la tragedia fosse per compiersi o si fosse già compiuta: difficile, nell’un caso e nell’altro, non vedere nel poeta esiliato un reduce: «Vivo ogni alba, di nuovo / con le tracce recenti»). Ci sembra, assodata la coerenza interna dell’opera, che le possibilità di sviluppo più interessante in Pestarino siano gli scatti di concretezza, i tratti persino iperrealistici de La morte di un bambino o Letterina a Marte più vicino.