La guerra dal punto di vista di chi la racconta, di Matteo Bartocci
«L’inganno è il Tao della guerra». La celebre massima di Sun Tzu è l’emblema dei conflitti combattuti da duemilacinquecento anni a questa parte. Il Tao del giornalismo, per dir così, è (o dovrebbe essere) esattamente l’opposto. E se è vero che la guerra si accompagna sempre a un controllo dei mezzi di comunicazione, cosa cambia quando il conflitto diventa «guerra globale» o addirittura «guerra preventiva»?
Indagare la guerra «dal punto di vista comunicativo e mediale» è il proposito dalla base del bel libro di Rossella Rega, giovane studiosa di scienze della comunicazione, titolato Mediaguerra, raccontare i conflitti contemporanei (Manni, 16 €). Un volumetto ben documentato che passa in rassegna il comportamento dei media nelle tante, troppe, guerre degli ultimi quindici anni. Il vecchio pensiero di Carl Schmitt dice: «Un imperialismo fondato su basi economiche cercherà naturalmente di creare una situazione nella quale possa impiegare apertamente i suoi strumenti economici di potere… l’avversario non si chiama più nemico ma viene posto come violatore e disturbatore della pace fuori dalla legge e fuori dall’umanità, (…) e la guerra (…) deve essere trasformata con il ricorso alla propaganda nella ‘crociata’ e nell’ultima guerra dell’umanità». Parole scritta dal filosofo del diritto tedesco nel 1927, che suggestionano ancora oggi i circoli neo-conservatori americani e sono chiaramente riconoscibili nei discorsi del presidente Bush. A cos’altro alludono concetti come «guerra preventiva», «stati canaglia», «scontro di civiltà»?
Sbaglierebbe però chi etichettasse meccanicamente queste posizioni nelle categorie destra/sinistra. Uno dei pregi del libro di Rega sta nel capitolo sul conflitto in Kossovo, che com’è noto fu condotto dalla Nato e dall’allora «Ulivo mondiale» (democratici Usa e governi di centrosinistra europei) per motivi «umanitari» rivelatisi in seguito – come si ricorda nel libro ricorrendo a citazioni d’epoca – enfatizzati o del tutto falsi: imbarazzante, in proposito, il confronto dei nostri maggiori quotidiani con quelli francesi. Da allora, tutto è cambiato. I concetti «bombe intelligenti» e «guerra virtuale» (ossimori buoni per la retorica) sperimentati negli anni ’90 si sono evoluti. Ora – come scrive Rossella Rega – «la parola libertà (Enduring Freedom e Iraqui Freedom) rappresenta un concetto universale e simbolico nella guerra contro il terrorismo». La propaganda war tuttavia è stata vinta dagli interventisti e apparentemente ha resistito allo scandalo (eufemismo) delle torture e al fallimento degli obiettivi dichiarati prima che la missione si dicesse compiuta, il 1 maggio 2003 Come si è comportata la stampa, in medias res? Per controllare l’informazione, il Pentagono (nella persona del sottosegratario Victoria Clarke) ha sviluppato un metodo giornalistico «embedded», perfettamente funzionale tanto al «war show» televisivo che alle esigenze militari. La famosa caduta della statua di Saddam fu «poco più di una photo opportunity, curata dagli addetti alle pubbliche relazioni di Washington», scriveva nel 2003 Fabrizio Tonello citato da Rega; che aggiunge: «Media mainstream, forze politiche e comandi militari hanno operato in modo organico e complementare». Non è un caso infatti che i maggiori «scoop» sulla guerra siano venuti o dalle «foto ricorso» ei carcerieri di Abu Ghraib – già digitalizzate e distribuite su Internet –oppure da settori dell’amministrazione americana nel loro lungo conflitto con le scelte del governo. Poco giornalismo di inchiesta e pochissimo approfondimento: la nuova «guerra asimmetrica» ha ucciso forse la libertà di informazione?
A differenza del Vietnam, oggi la comunicazione appare più diversificata, ma oltre alle bandiere e alla patria sono le nozioni di «guerra giusta» e «guerra perfetta» a dare all’opzione militare un carattere di ineluttabilità. «L’intervento è l’unica strada percorribile»: questo è il messaggio ossessivo ripetuto prima e durante il conflitto, cui l’opinione pubblica risponde oggi con maggiori sfumature. Inoltre, sebbene il web appaia ancora un medium poco controllabile, una sorta di backstage usato soprattutto da settori terroristici e dai giornalisti nei propri blog, canali come Al Jazira hanno sfidato per la prima volta la sapienza mediatica occidentale. Il racconto non è più unilaterale, e forse non è un caso che, presto, «forze della coalizione» abbiano bombardato e chiuso l’ufficio a Baghdad della rete qatariota. Nel ’91 sotto le bombe di Baghdad c’era solo la Cnn (e, nel suo piccolo, il manifesto). Oggi ci sono decine di network in feroce competizione tra loro.
Una delle conseguenze, ricorda Rossella Rega, è l’annullamento del rischio per coloro che non accettano le regole del giornalismo embedded: sono quarantotto i giornalisti e gli operatori uccisi soltanto in Iraq dall’inizio della guerra. L guerra «videogame» è dunque un formato ricordo, la realtà sanguinosa e barbara dei conflitti (per il fallimento etico, militare e politico di chi li ha scatenati) è tornata sugli schermi. È però impossibile non pensare alle parole di Giuliana Sgrena nel uso primo articolo dopo la liberazione, quando ha detto che lei stessa e i giornalisti abituati a lavorare come lei hanno «fallito». Da quella «analisi impietosa» del suo lavoro Giuliana è uscita piena di dubbi, sconfitta: «L’effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la comunicazione, mi precipitava addosso. A me che ho rischiato tutto».