Alessandro Valentini ha fatto ciò che ogni dirigente politico dovrebbe fare all’indomani di una sconfitta. Si è chiuso nel suo studio, ha spento il cellulare, ha studiato e poi ha scritto.
Introdotto da Fausto Bertinotti – che nella sua densa prefazione esprime, peraltro, un punto di vista diverso da quello di Valentini, proprio nell’intento di mettere il libro al centro di un dialogo – il saggio si struttura in quarantadue capitoletti, ciascuno dei quali rappresenta una sorta di tesi «da porre in discussione» (p. 10). La narrazione si svolge su due piani: a quasi ogni capitolo è infatti affiancato un corposo apparato di note che finisce per essere un vero e proprio testo parallelo che argomenta e discute i temi di volta in volta evocati.
Il volume è diviso in due parti. La prima si cimenta in un bilancio critico del marxismo e della storia del movimento operaio; la seconda, più strettamente politica, si misura sulle prospettive del socialismo del XXI secolo.
Valentini muove dalla considerazione che l’attuale crisi della sinistra si configura come l’esito ultimo di una «lunga onda che dall’89 sta sconquassando tutto» (p. 29). Il messaggio è chiaro: in una fase come questa non ci si deve chiudere a riccio: «la semplice difesa dei diritti e degli ammortizzatori sociali conquistati dalla sinistra nel Novecento non è sufficiente per reggere lo scontro, è strategicamente perdente anche se si conducono battaglie di opposizione ferme e nette, perché il vero problema è tentare di governare da sinistra le contraddizioni, per riproporre la via della transizione» (pp. 29-30).
L’analisi teorica dell’Autore prende le mosse da Marx, letto e riletto attraverso le lenti di Lenin, di Gramsci ma anche di Lukács. L’invito è esplicito. La strada da seguire è quella di una costante innovazione a partire dai fondamenti teorici marxiani prima, leniniani poi. Proprio perché «il crollo dell’Urss non vuol dire, come risultato storico, morte del socialismo» (p. 97) è necessario, afferma l’Autore, ricostruire una sinistra ed un pensiero critico in grado di uscire dalle secche in cui la vittoria borghese li ha costretti. L’invito è, dunque, a ricostruire una nuova egemonia. E per fare ciò «occorre mettere in campo l’idea di un ‘nuovo socialismo’ forte del pensiero femminista, delle elaborazioni antiglobalizzazione, dell’ambientalismo e naturalmente del pensiero critico del movimento operaio del Novecento» (p. 102). La capacità di mettere in discussione l’egemonia culturale e scientifica delle classi dominanti deve quindi passare per un complesso processo di riappropriazione delle proprie teorie critiche e di loro aggiornamento. Non si tratta di un’affermazione scontata, in particolare dopo una lunga fase di ubriacatura “nuovista” che ha smantellato le acquisizioni teoriche stratificatesi lungo un intero secolo, per abbracciare effimere suggestioni di moda. Lo stesso recupero della nozione leniniana di imperialismo impiegata per leggere la globalizzazione come sua fase più alta è una stoccata a quelle letture che hanno postulato la fine del ruolo degli Stati nazionali.
Alla seconda parte del volume è consegnata la proposta politica dell’Autore. L’invito, in sintesi, è a lavorare per la creazione di un nuovo senso comune (gramscianamente inteso). Per fare ciò è indispensabile assumere l’internazionalismo come orizzonte politico. La creazione di una Federazione mondiale della sinistra anticapitalistica viene infatti additata come un obiettivo irrinunciabile per dotare il movimento anticapitalista di uno strumento concreto in grado di contemperare la dimensione nazionale con quella globale (in particolare con un forte europeismo).
Nel terreno della lotta nazionale, l’Autore pone l’accento sull’importanza dell’unità. Un partito, il PRC in questo caso, per affrontare un percorso di unità con le altre forze anticapitaliste, deve però dotarsi di un’organizzazione strutturata e radicata, lontana anni luce dalle fantasmatiche prospettive del «partito leggero». In questo cammino, il tema delle alleanze, afferma l’Autore, è cruciale. La sua proposta è dunque di lavorare per trovare un accordo programmatico anche con le forze democratiche moderate. Si tratta di un obbligo che Valentini indica richiamando la necessità di un’azione politica sempre «adeguata al contesto» (p. 248). Non si tratta, afferma chiaramente l’Autore, della riproposizione di uno scenario già visto. La nuova via che Valentini propone è infatti legata ad una visione processuale in cui le tappe intermedie si fondono in un più ampio progetto di trasformazione economica, politica e sociale.
Per il socialismo è un volume pieno di stimoli. Essi potrebbero essere meglio messi a frutto, però, se uniti ad un’analisi del berlusconismo come sistema di potere in grado di creare un proprio blocco sociale piuttosto compatto ed omogeneo: è questo un tema cruciale che la sinistra deve indagare con occhio attento. Allo stesso modo, se l’Autore si riferisce spesso alle prospettive del socialismo del XXI secolo, raramente fa riferimento a quelle aree del mondo dove il socialismo del XXI secolo è oggi una realtà praticata. Mi riferisco in particolare all’America Latina dove le forze della sinistra sono riuscite a coniugare l’unità con la radicalità, la presa del potere con la trasformazione dei rapporti sociali, in un cammino ancora in corso ma di cui alcune tappe significative sono già state segnate. L’analisi di Valentini è, dunque, un po’ eurocentrica. Non si tratta, però, del rifiuto di un’opzione culturale e politica, quanto della testimonianza di quanto sia percepito come urgente il bisogno di indagare le ragioni della nostra crisi. Una crisi italiana ed europea che la sinistra deve affrontare liberandosi però dell’approccio eurocentrico, proprio in ragione delle belle pagine sull’internazionalismo che Valentini ha scritto.