La mia versione dei fatti, di Elisabetta Liguori
Ammesso che sia destinata a sopravvivere ancora per qualche anno, e onestamente un po’ ci conto, mi sa che a me il noir m’ha salvato la vita. Letterariamente intendo, e forse non solo. Nel senso che io, per natura, scriverei romanzi senza traccia, racconti senza capo né coda, frattaglie più che narrazioni, emozioni più che trame, personaggi piuttosto che eventi. Tutta colpa di Virginia Woolf che m’ha spinta sull’orlo del baratro a forza di passeggiate, elucubrazioni e meditazioni. Ragion per cui, quando qualche mese fa Agnese Manni mi ha proposto di partecipare ad un’antologia che raccoglieva le più autorevoli penne del sud e le metteva a confronto con le peggiori storie di sangue, io ho detto: sì grazie, ero commossa, oltre onorata. Mi sono detta: ci provo, ché tanto ci sono storie che io, con il mestiere che faccio, sempre tra le aule di tribunale, neppure me le cerco: sono loro che mi vengono a trovare. Ne avevo, infatti, giusto una nerissima che mi ronzava attorno. Erano i giorni in cui in televisione non si vedeva altro che il biondo pulcino di Avetrana e tutti a dire la propria. Non so bene perché, ma in quella gazzarra, m’ero convinta che i paginoni, l’audience e i palinsesti drogati, gli esperti con la collana di perle, fossero un fenomeno sociale importante; da studiare. E che tutta la questione avesse qualcosa a che fare con la felicità. Con la felicità della gente. Tutta la gente. Pensiamoci: spesso il sangue degli altri ci mette in connessione con il centro della vita. Più semplicemente, l’orrore e l’empatia che nascono dal sangue versato ci ricordano in modo immediato e carnale che siamo vivi. Un narratore, dunque, non può restare impassibile dinanzi ad un fenomeno simile. Deve dire la sua, offrire una qualche visione delle cose, rappresentare bisogni e intenti, guardarli dritti in faccia, altrimenti che narratore è? Così ci ho provato pure io. Prima ho scelto la storia. Poi una struttura di salvezza per non perdermi. Infine un linguaggio. Perché il linguaggio è la casa dell’essere (lo diceva Heidegger, mica io) e quindi dovevo trovare quello adatto a me. No, perché in tv volteggiavano sempre le stesse parole: l’orco, il male, la paura, il tappetino di violini che suonano, la mamma che piange, le foto in loop, gli appelli dei vicini di casa, i filmati con la banda che scorre sotto, e allora è normale che uno si chieda: ma che linguaggio è questo? Come funziona? Ce ne è un altro possibile? Allora ho pensato alla mia bambina. La bambina della mia storia. Quella che in diritto chiamiamo “testimone debole”, cioè colei che ha casualmente visto il sangue con i suoi occhi: il come il dove il chi, ma non sa bene come raccontarlo. Colei la cui credibilità dipende dal modo di essere, dalle esperienze fatte fino a quel momento, dalle persone che le sono intorno e si curano di lei. Colei per la quale la verità è un’idea in progress. La mia bambina, infatti, è ancora troppo piccola per aver chiari certi meccanismi mediatici, etici, giuridici o di costume. E’ solo una bambina che, come tutti, vuole essere felice. Dopo una imprevista notte di sangue la mia bambina comincia a chiedersi se e come quel sangue che ha visto senza capirne il senso può aiutarla ad essere felice. Il mio racconto, dal titolo “ Hollywood”, presente nell’antologia Sangu, curata e editata da Manni editori, racconta la sua storia da quel m omento in poi. Una storia in frammenti. Un noir sulla felicità che prende spunto da un fatto di cronaca salentina, che molti riconosceranno. E altri invece no, ma è lo stesso.