Sergio D'Amaro, Terra dei passati destini

01-04-2006
C’è un filo diretto fra la povertà vessata del medioevo messa in risalto da Raffaele Iorio in I Benedettini e gli splendori dell’anno Mille (Schena 2006) e quella evocata nel volume di D’Amaro. Qui l’intuitivo prefatore Marazzi, ancorché milanese purosangue, percepisce subito quali sono gli assi portanti che permettono all’autore di interpretare vita e destini della gente del Sud. Anzitutto una capacità poetica e poietica, come sensibilità e come abilità di plasmare le sensazioni in figurazioni appropriate –D’Amaro è infatti autore di buoni volumi di poesia. Poi, una consapevolezza storico-sociale che si è affinata su letture, non solo, ma attraverso ricerca sul campo: a fine anni Ottanta l’autore coordinò i rilevamenti di un gruppo di giovani che indagarono svariati aspetti demologici e antropologici della loro zona, il Gargano interno gravitante attorno alla comunità di San Marco in Lamis; da quell’indagine venne una serie di testimonianze audio-registrate, che furono materia di base per questo volume. Infine, l’esperienza di biografo e saggista (che ebbe la sua punta nella biografia Un torinese del Sud: Carlo Levi con Gigliola De Donato recentemente in edizione tascabile, Baldini Castaldi Dalai, 2005). In questi “annali dei poveri”, per dirla con il poeta inglese Thomas Gray, abbiamo dunque diciannove medaglioni, figure emblematiche d’uno stato di vita: il pastore “Pelle di capra”, la “vestitrice di morti”, la “traviata”, il vecchio socialista, l’emigrato, e così via, abilmente ricostruite in finzione narrativa, raccontate in prima persona per voce degli stessi personaggi, i quali parlano dalla tomba, in un italiano dalle forti intrusioni regionali, con simpatia e perfino empatia da parte dell’autore. Ovvio il rimando a un libro che ha suggestionato varie generazioni, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; ma senza quegli accenti disincantati che talora fanno della comunità di Spoon River un’addizione di individui cinici o meschini o derelitti; assente pure quel senso del tempo divoratore inesorabile che marca fin dall’inizio Spoon River. Più spirito di indagine, appunto, in aura di mito, di civiltà proletaria e contadina.