Silvia Bortoli, Percezioni variabili

23-05-2005

Silvia Bortoli racconta la paura della libertà, di Marco Lombardi


Percezioni variabili di Silvia Bortoli è un piccolo volume, che tiene compagnia. A lungo. In modo discreto e perentorio, quasi fosse una fedele “silhouette” dell’autrice; un’elegante signora veneziana, da un bel po’ trasferitasi a Napoli, leggermente “blasé”, vezzosamente a disagio nel mondo. Di professione Silvia traduce dal tedesco e –cosa insolita– riesce persino a viverci decorosamente. I lettori le sono grati per un Meridiano Mondadori di qualche anno fa, dedicato a Theodore Fontane (1819-1898), un grande scrittore europeo del pieno Ottocento, e per aver smentito un pregiudizio. Di solito, una traduttrice che compia il gran passo, cimentandosi in una prova non di servizio, viene attesa al varco senza particolare benevolenza. Ci si attende troppo oppure troppo poco; un’immaginazione coltissima, satura di modelli impegnativi, quindi noiosa; ovvero uno svago dalla fatica, al quale concedere, tutt’al più, le attenuanti della vanità e uno sguardo distratto. Gli undici racconti di Percezioni variabili testimoniano, piuttosto, una vocazione antica e artigianale per la scrittura che il primo mestiere ha sedimentato, ordinato e sveltito. In poche pagine, Silvia condensa oggetti, luoghi, odori e psicologie, che ad altri avrebbero richiesto, magari, qualche centinaia di cartelle in più: uno sguardo analiticamente freddo e disperatamente tranquillo sull’esistenza. I punti di riferimento di una lingua nitida, straniante, poco femminile, e spoglia di ogni psicologismo superfluo, sono tedeschi: naturalmente. Si riconoscono Kafka e Bernhard, nella capacità di raccontare l’assurdo che s’insinua nella ripetitività del quotidiano, stravolgendolo; ma una certa maniera di considerare il racconto come “tranche de vie”, porzione di vita quasi fotograficamente, fisicamente restituita, derica invece dall’accoppiata naturalismo francese-Cechov. Una miscela millesimata, che raggiunge il suo acme stilistico nel secondo racconto, L’aiutante: il più lungo della raccolta e uno dei più intensi che annoveri la recente letteratura italiana. È la storia, allegorica, della reclusione in una prigione, le cui pareti coincidono con l’universo. Di una libertà impossibile da conquistare, perché sarebbe un controsenso, un insulto a quella condizione umana che ci vuole inchiodati perennemente in una cella,a perimetrale i nostri ricordi e le nostre emozioni: bramando la via di fuga, di cui non sapremo mai approfittare. “Se fisso un oggetto a poco a poco quello mi si sottrae, (…) ho imparato a osservare in modo diverso, non guardo più un oggetto direttamente (…); allora, come se non sentisse più il mio sguardo, quello si apre e tutto quanto ho cercato di fermare nella memoria mi si avvicina limpidamente”, dice il protagonista. E traduce, per noi tutti, il battito d’ali della mosca, che non vuole uscire dalla bottiglia.