Silvia Martufi, Terrapadre

11-03-2010
Dal mondo contadino, tre generazioni a confronto,  di Valentina Capuano

La leggenda vuole che sia stata fondata approssimativamente nel v secolo a.c. dai ciclopi, o forse dal misterioso popolo dei Pelasgi, se non addirittura dal Dio Saturno: parliamo di Alatri, suggestiva località del basso Lazio chiamata altrimenti Civita e che deve il suo fascino alle poderose mura di cinta megalitiche di forma poligonale che si erigono monumentali, in triplice fila, sui rilievi ove è ubicata la fiorente cittadina della Ciociaria. Nota per le sue bellezze monumentali ed archeologiche, la città deve indubbiamente il suo fascino al mistero delle sue origini, che inequivocabilmente lasciano presumere un’impressionante conoscenza dell'astronomia da parte dei fondatori di quest'Acropoli: se restano un mistero le modalità con le quali fu costituita ad esempio la “Porta maggiore” composta da otto enormi massi sormontati da un architrave dal peso di circa 27 tonnellate, si è invece fatto luce, grazie a recenti studi, sulla precisa funzione delle mura di cinta della città: ovvero quella di scandire il trascorrere del tempo in base ai modelli cronologici già in uso nell’antica Mesopotamia, studi dai quali emergerebbe inoltre che l’acropoli di Alatri sarebbe sorta in un solstizio d'estate, all’alba di un 21 giugno di secoli fa.

È questa la suggestiva ambientazione del romanzo della psicoterapeuta Silvia Martufi intitolato “Terrapadre”, che narra in modo del tutto distaccato dall'uso consueto e logoro della nostalgia, le vicissitudini di tre generazioni di alatrini nel periodo intercorrente tra i primi anni Venti ed il secondo dopoguerra: scene bucoliche descritte con un velo di malinconia e con evidente adorazione per quel mondo contadino ormai lontano ci rivelano i ritmi flemmatici e riti arcaici che contagiano il lettore in un autentico piacere: quello della riscoperta della natura. Così il microcosmo variegato sapientemente descrittoci, ci proietta in una realtà remota quanto suggestiva: che sia raccontato il rapporto viscerale dell'allevatore di cavalli con le sue preziose creature equine, la fatica diuturna del falegname o del fabbro, la tempra ferrea delle donne nello svolgimento di pesanti faccende domestiche quanto negli scambi comchelomerciali: tutto ci riporta ad una realtà molto lontana da quella odierna, immergendoci in un’atmosfera delicata e rarefatta.
Walter Mauro, noto critico letterario e saggista che ha moderato la presentazione del volume (Manni), parla, infatti di “Terrapadre” come «Un romanzo che coinvolge il nodo tematico della memoria, in cui un misterioso punto d'incontro permette di utilizzare schemi e stilemi nuovi e diversi nella fruizione del ricordo in cui l'intero tessuto narrativo , si sviluppa , nel contempo, su un terreno deprivato di punte sentimentali». Aspasia, Giuseppe, Giannina, Loreta, sono alcuni dei personaggi del romanzo, ciascuno dei quali costituisce un archetipo. La prima, l’emblema della donna mercuriale ed intraprendente, che all'indomani della perdita del coniuge si dedica a fiorenti attività commerciali per mantenere i suoi figli (“Tutto è effimero dirà Aspasia- tranne il lavoro e quanto ne deriva. A che serve la buona salute se non è produttiva?”); Giuseppe l’uomo probo e retto vittima di un agguato, Giannina la donna passionale che rinuncia ad un tranquillo menage con un ragazzo del suo paese, preferendogli un soldato straniero e la premurosa zia Loreta che si occupa, non avendo figli suoi, della prole altrui. Un’intera compagine familiare viene esaminata e scandagliata nelle proprie fiere consuetudini e nelle legittime aspirazioni che trovano sintesi in una frase di uno dei protagonisti: “Siamo il prodotto della cultura contadina, veniamo dalla terra a grana grossa, ma non per questo siamo meno sensibili: siamo essenzialmente pragmatici ma non per questo senza sogni nel cassetto, e alla fine raggiungiamo quasi sempre convincimenti realistici e conclusioni logiche senza elucubrazioni mentali”.