Finiamola con la vita, di Andrea Cortellessa
All’insegna di “una parola violentemente abitata dalla propria alterità, dalla mortalità stessa” (altro che vitalità), legge Pasolini uno dei suoi interpreti più originali: lo Stefano Agosti che ha raccolto i suoi Scritti su Pasolini nel volumetto La parola fuori di sé. Acuta la lettura, da parte del grande critico, del prologo di Orgia (1968), dove parla un “Uomo […] morto da poco”. La “diversità” che questi rivendica gli si è rivelata, dice, “solo pochi minuti prima di morire: / per il tempo, cioè, necessario, a togliermi / esemplarmente la vita”. E allora non è tanto una diversità sociale, la sua (“Negro, Ebreo, mostro”, ‘diverso’ nel più logoro e falso degli eufemismi: frocio, insomma), bensì appunto la presenza della “morte come progettazione inscritta nel programma narrativo, in quanto diversa dalla morte come fatto naturale”.
Proprio la lettura di Petrolio come trionfo della pulsione di morte e della fantasia di ritorno a uno stato prenatale (èsiti opposti e simmetrici dell “annullamento del Soggetto”) è la chiave dell’interpretazione di Agosti. Lo dice lo stesso Pasolini, nell’Appunto 99 (a sua volta meno citato di altri, et pour cause), che pone l’impresa sotto duplice e, al solito, contraddittoria insegna: da un lato, scrive, “io ho […] organizzato il senso e la funzione della realtà” e, subito dopo, “ho cercato di impadronirmi della realtà”. Dall’altro “desideravo anche di liberarmi da me stesso, cioè di morire. Morire nella mia creazione: morire, come in effetti si muore, eiaculando nel ventre materno”. Due secoli di decadentismo dovevano bastare a capirlo, ma è ora di dirlo con forza: se la vitalità di Pasolini è disperata è perché coincide –in specularità esattamente simmetrica– col suo contrario.