Stelvio Di Spigno, Formazione del bianco

01-04-2008

Senza orpelli, di Angelo Lippo

E’ risaputo quanto il bianco rappresenti il colore per antonomasia, la sostanza di un rapporto equilibrato anche nella composizione grafico-tipografica, ma assume la priorità di contenuto nell’assemblaggio delle parole. Lo spazio che intercorre tra una parola e l’altra ha la capacità di una comunicazione quanto mai precisa, nel senso che determina l’equidistanza fra il concetto di prima e quello seguente. Ciò, di contro, stabilisce l’enunciazione di un proprio modo di guardare la realtà, di approcciarsi alle cose, in modo assolutamente autonomo, cioè liberi da qualsiasi gabbia strutturale, sia essa di forme sia di contenuti.

Questi pensieri mi sono frullati nella mente mentre scorrevo le pagine di Formazione del bianco del poeta napoletano Stelvio Di Spigno, e ho dovuto lasciarli sedimentare prima di affrontare a viso scoperto i suoi versi. Quella di Stelvio Di Spigno non è una poesia facile, che puoi prendere sottogamba, a cuor leggero, ma pretende un’attenzione forte e vibrante soprattutto perché non ama i ghirigori della parola effettuale. Il verso si prolunga nelle cavità della vita e tenta di scoprirne i più segreti recessi, quando “l’anima forma i suoi nitrati | e lo avverti, ma non la puoi toccare”, impalpabile necessità di un vivere che entra e fuoriesce a suo piacimento negli interstizi dei giorni. Il tracciato è ben delineato “Ho usato inchiostro bianco anche stanotte”, così il poeta spoglia gli orpelli degli accadimenti, disarmato, ma irrobustito da un recupero delle tensioni verbali e umane, le prime distribuite in livelli strofici diversificati, qui e là sincopati, altrove dinamicamente declinati su andamenti più prosastici. Lo spessore delle cose normalizza una condizione rigorosa, che non offre definizioni precostituite, perché il tutto si svolge e si avvolge attraverso un processo instabile, proprio com’è la realtà che viviamo ogni giorno. Una condizione di povertà la nostra, pervasa da seduzioni e inganni, angosce e sgomenti, che germinano agli angoli della vita come fiori sporchi di letame. “Mentre io vorrei | appartenere solamente a voi | attraverso lo schermo | di un attimo corale; | e in giorni idratati di pioggia e delusione | darci un pane qualsiasi | per una qualsiasi fame: darci un nome | un volto: e non letame. | E anche la mia mano”. E’ l’insufficienza di un tempo vissuto e rincorso come una corsa ad ostacoli, dove il fantino (il poeta) s’attacca disperatamente alla sella per paura di essere disarcionato da un momento all’altro, permettendo così al “nero” di isolare la verginità di quel “bianco” anelato. Che è un po’ l’ambizione di tutti noi.