La vocazione controriformista, di Pippo Ruiz
C’è, alla base di questo libro, una inconsapevole vocazione controriformistica che lo precipita nel nostro piccolo e inquieto mondo morale e poetico, generando un curioso corto circuito, un effetto di straniamento che sicuramente l’autore non aveva previsto:
lo immaginiamo, infatti, Stelvio Di Spigno, figlio di questo tempo, incamminato in questa via senza ritorno tra beffe e lusinghe multimediali, travolto anch’egli da domande che sempre più di rado consentono o anche solo prevedono risposte. «E’ impossibile produrre una chiarezza da molte oscurità» (Goethe): Di Spigno lo sa bene, però sa anche che le «molte oscurità» del pensiero hanno sempre lottato per trovare un senso, un sentiero, una luce a dispetto degli umani limiti e della consapevole impossibilità di una cristallina reductio ad unum. Che altro fanno, i poeti, se non inseguire testardamente il miraggio di una “chiarezza” in fondo a un pozzo di oscurità? Di Spigno lo fa con un accanimento e un’acribia che a volte diventano, alla maniera di Pessoa, voluttà di annientamento: «Volevo non essere più niente»; «Nessuno si è accorto che non esistevo più»; «In me tutti dicono io c’ero». Ma non basta: ad arricchire il linguaggio poetico di Di Spigno si coglie, snodando i fili intricati dell’opera, una volontà predicatoria e morale che, appunto, rimanda a certi toni severi e morali di mistici e religiosi del ‘600: la «formazione del bianco» come processo alchemico che conduce, attraverso un ostinato lavorio, a purezze impensabili, al crogiuolo di confessioni che ricordano, nelle intenzioni, prediche morali come le ars moriendi, («Mi sono specchiato in un’acqua di fogna / ma l’ho riconosciuta: / mi sono rispecchiato nell’infanzia»). Qui c’è, in sintonia con un minimale processo di interiorizzazione del senso (ma anche della colpa, di un’infanzia tradita, di rapporti incompiuti) il tentativo, quasi un gioco barocco, di far nascere il bianco (colore dell’ascesi e della verità) da una compulsiva sovrapposizione di colori, di pennellate, di materie: come un Pollock gesuita che usasse la parola per confessarsi, colpa su colpa, memoria su memoria, stratificando e insieme schiarendo, aprendo una luce, uno spazio, un chiarore. Il bianco che ne scaturisce è (dovrebbe essere) verità, appartenenza, intenzionalità. Ci ricorda, tale procedere, l’arte di chi si esercita in un groviglio di pratiche e preghiere per conseguire una «vita devota» che diventa, specie in certe poesie di memorie d’infanzia, la negazione di ogni devozione: è a questo, probabilmente, che mira ogni «formazione del bianco»: non è, il bianco, l’origine di ogni colore, ma la somma e insieme la negazione del colore stesso. Omnis enim color omnino mutatur in omnis (Lucrezio, De rerum natura).