Bùmmari e lancedde
Nostro conterraneo per parte materna – la madre era una castelbuonese appartenente a una delle famiglie più conosciute e stimate del paese – Tommaso Alibrandi, accantonando per un momento i suoi gravosi impegni di giurista di altissimo livello – è magistrato del Consiglio di Stato e docente di diritto amministrativo alla LUISS di Roma nonché autore su temi specialistici – ha dato alle stampe un avvincente “romanzo” su Castelbuono: Giochi di fuoco. I castelbuonesi chiamano così i fuochi artificiali.
Il romanzo narra la storia di due uomini vissuti in epoche diverse, uno nel XX secolo l’altro nel XIV (nel nostro caso il conte Francesco Ventimiglia, fondatore del Castello e, in definitiva, di Castello buono, marito di una Chiaromonte), che hanno percorsi di vita ovviamente legati al contesto storico, politico e sociale di riferimento ma che sono accomunati dal modo in cui “vivono la vita” nell’accezione più ampia del termine.
L’autore adotta una tecnica di narrazione che gli consente, dapprima, di raccontare le storie dei due uomini separatamente, e non per metterne in risalto le differenze ma semmai per esaltare gli aspetti comuni che legano a filo doppio i personaggi, e successivamente di intrecciare e sovrapporre luoghi, “fatti e misfatti” delle loro vite trascinando il lettore in una altalena continua fra il reale e il surreale.
Lo scenario che fa da sfondo al romanzo, come si è detto, è Castelbuono con la sua storia, i suoi uomini, i suoi segreti.
I luoghi, le vicende e le tradizioni del tempo vengono descritti con una dovizia di particolari tale da permettere al lettore non solo di immaginare quello che sta accadendo ma di vivere all’interno della storia come se egli stesso ne facesse parte. La civiltà contadina, anzi l’attività rurale, rivive con efficaci immagini narrative; e così pure lo scirocco, “questo vento, creato da Dio per dare agli uomini un’anticipazione dell’Inferno”.
Centrale, come è ovvio, la festa di S. Anna con la sua corsa podistica. È sottile il ricordo, che è ormai in pochi, del brano musicale con cui si chiudeva l’ultimo giorno della Festa, la Festa al Campo – creazione di una famosa dinastia di musicisti castelbuonesi, gli Ippolito – nel quale brano, capovolgendosi certi canoni scenici circa la presentazione delle varie sinfonie operettistiche, un trombettista esperto si poneva in un balcone posto dirimpetto al palco nel quale suonava la Banda e, a un certo punto del brano in svolgimento, interveniva con perentorie note della tromba, di allarme o di allerta, che vivacizzavano l’intrattenimento procurando battimani calorosi da parte della folla, assiepata in attesa di tale gran finale della festa.
È una storia di Castelbuono dell’immediato dopoguerra fino alla metà degli anni ’50 sulla cui quinta scenica si muovono personaggi i cui nomi, in più di una occasione, vengono opportunamente sfumati o mimetizzati in maniera che non si trasformino in biografie private. Costituiscono lo sfondo umano di un paesaggio inconfondibile per un castelbuonese, perché vi si ritrovano tutte le tradizioni, i modi di dire, e perfino le espressioni gergali. Forse sarà difficile che questo antico universo umano e fisico possa essere interamente compreso dai giovanissimi: ma per i meno giovani – e naturalmente per quelli della terza età – leggere questo libro sarà un bel tuffo in un mondo vissuto e scomparso, che riemerge dalla prosa attenta e completa del “romanzo”. Soprattutto nella lingua parlata, che in buona parte non è più il familiare corredo lessicale dei semplici, che allora si incontravano attorno a fontane che fisicamente esistono ancora ma hanno perduto la loro secolare funzione di incontro fra vicini, impegnati a scambiarsi informazioni e notizie del mattino e della sera, e magari impegnati in qualche innocente gossip d’antàn, oltre che a rifornirsi della preziosa acqua da bere: con gli indimenticati bùmmari e con le inobliate lancedde.
Una affascinante lettura che offre una nuova occasione per riscoprire la difficile e a volte contraddittoria essenza dell’essere umano sempre in bilico tra il suo antico bisogno di alimentare il “fuoco della vita” e il pressante pericolo di bruciarsi con lo stesso.
Davvero suggestivo.