Poeti ceceni, di Mario Lunetta
I lettori di Puskin, di Lermontov e di Lev Tolstoj sanno che fin dal Settecento i territori caucasici hanno rappresentato per l’autocrazia zarista un problema complesso e difficile, comunque irrisolvibile attraverso scorciatoie militari. Un problema ancora drammaticamente aperto, dopo che né la soluzione staliniana né quella eltsiniana, e tantomeno gli sbrigativi rimedi di Putin hanno chiuso una piaga tuttora in violenta suppurazione. L’attuale conflitto ceceno è lì, ancora oggi, con tutto il suo disastro moltiplicatore di disastri. Paolo Galvagni, cui si deve la meritoria antologia di poesia cecena, Tra i ruderi di Groznyj. Il conflitto ceceno nella poesia russa, osserva in prefazione: «Sembra quasi che la guerra nel Caucaso sia una catastrofe perenne. Il conflitto ceceno, che tocca profondamente l’intelligencija russa, ha determinato il rifiorire della poesia civile» in un paese nel quale toccare tematiche legate ai «destini generali» è stato per decenni un tabù troppo rischioso da sfidare. Il libro comprende testi di cinquanta autori di varie generazioni, russi, ucraini più un importante poeta bielorusso (Ales’ Razanau), e prende le mosse da una raccolta, L’ora X: versi sulla Cecenia e non solo, apparsa a Mosca nel 2001 per le cure di Nikolaj Vinnik. Rifiuto della violenza, sdegno, sarcasmo contro un potere ottuso, dolore, desolazione, spesso rifugio in soluzioni intimistiche: tra questi punti nevralgici si snoda una ricca serie di esperienze poetiche che sembrano avere al loro centro il vuoto. Non splendono nell’antologia di Galvagni poeti di valore straordinario, se si eccettua il più complesso e problematico tra loro, il leningradese Michail Suchotin (classe 1957): ma è in tutti i casi importante aver rivolto al distratto lettore italiano, e al nostro altrettanto distratto mercato editoriale, una provocazione che certo va al di là di una mera documentazione sociologico-cronistica cresciuta su quello che ha tutta l’aria di un mattatoio senza fine.