Ugo Ronfani, Memoriale delle caverne

04-06-2006

"Vi racconto la prossima guerra mondiale", di Enzo Mansueto

La senilità di Ugo Ronfani ci sta donando oggetti letterari intensi. Accanto alle liriche di Canzoniere per la sposa perduta, rappresentazione chiaroscurata dalla vedovanza del salvifico rifugio dell’amore coniugale, ecco il nuovo romanzo, Memoriale delle caverne. Qui, i temi dell’utopia e della critica sociale brillano di una lucidità disillusa, eppure al fondo accalorata. La dislocazione fantascientifica del racconto –l’antiutopia– apre uno squarcio allucinante e allarmato sul nostro presente. Ne parliamo con l’autore.
Il romanzo, con la sua ottica fantascientifica, corteggia, come l’ultimo Houellebecq, il romanzo “di genere”. A cosa si deve questa scelta?
«In effetti il romanzo procede con una scrittura binaria. La prima parte del memoriale, scritto in età avanzata da Pietro Forster, e contrappuntato dall’autore, evoca la fuga che, con la cuginetta Neda, lo porta a rifugiarsi nelle grotte, per sfuggire ai rastrellamenti del ’44 nell’alta Val Cannobina. Nella seconda parte, Pietro viene restituito alla civiltà nella Svizzera post-bellica, che si avvia a partecipare alla nuova società demo-cyber-globale dell’Occidente. Una società che gli appare come una metaforica caverna simmetrica a quella della sua infanzia. Insomma, nei secoli mutano le sovrastrutture di tempo e di luogo, ma non la natura dell’essere umano. La ferinità del darwiniano homo erectus si ripete nel pilota che sgancia l’atomica in quel terzo conflitto mondiale descritto nella seconda parte del libro. E qui la narrazione si fa di anticipazione fantascientifica, consentendo, come in illustri esempi –Bernanos, Calvino, Saramago–, una democratica connessione tra cultura “alta” e cultura “bassa”».
Vi si riconosce un’atmosfera orwelliana, soprattutto nell’idea di “guerra permanente” celata sotto la “pace perpetua”.
«Il romanzo è sicuramente tributario della visionarietà critica di Orwell, di cui mi sono occupato in occasione del centenario della nascita. Vorrei si potesse considerare Memoriale delle caverne come una ulteriore proiezione di 1984. La guerra, esecrazione compresa, è per me la presa d’atto di una condizione ineliminabile. Mi soccorre in questa visione disincantata la lettura del Kraus di Gli ultimi giorni dell’umanità. Intorno al mio libro e a La guerre sans limites dei generali cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui, di cui curerò la traduzione italiana, è in corso a Milano un dibattito sul tema “La terza guerra mondiale è già cominciata?”, dove “guerra” non è soltanto conflitto militare…».
Un luogo storico dell’Utopia, quale la Villa della Baronata, diventa nel suo libro il laboratorio di una umanità nuova, tutt’altro che vicina ai sogni anarchici evocati. Una profezia?
«Sì, la Villa è stata preservata dalla distruzione ed è diventata una sorta di museo delle idee e delle utopie del passato, l’alibi di una sottocultura mediatica che ancora esita ad azzerare nell’effimero del presente la memoria storica».
Pietro Forster, nel periodo di imperfetta integrazione, è un “alieno”. “Alieni proletari” sono i rivoluzionari che lo hanno preceduto. Chi è oggi l’alieno?
«Oggi, nell’Occidente del supercomputer, dell’intelligenza artificiale e della robotica, l’umanità cybor non si rapporta più agli schemi marxisti della lotta di classe, è “aliena” rispetto alle logiche del vivere civile. La sociologia contemporanea non fa altro che ribadire la fine delle classi: mondo di ombre del passato su cui si sta esercitando proprio adesso il teatro dell’assurdo sociale di un Ascanio Celestini».
“Fine del ferrovecchio ontologico di Beckett”, si legge a un certo punto: nel centenario beckettiano, e da uomo di teatro, che resta oggi della questione ontologica posta da Samuel Beckett?
«Nel riprendere Godot dall’arsenale teatrale di Beckett non ho affatto inteso negare la questione ontologica, ma considerare piuttosto che nel vuoto della cultura cyber-mediatica sono a rischio gli spazi del mistero e della fede. Ciò può condurre, come nella sorte finale del romanzo, a una sorta di fragile, provvisoria coesistenza pacifista fra capi religiosi e poteri economici: ma si tratta di convenzioni istituzionali, non di sostanza umana».
Per finire, lei è ora tra i finalisti del Premio Bari: quali sono i suoi legami col capoluogo pugliese?
«A Bari ho pubblicato negli anni Sessanta il mio primo libro, Perché de Gaulle, che Vito Laterza mi chiese di scrivere sulla Quinta Repubblica Francese dopo aver notato una mia inchiesta sul gollismo pubblicata dalla “Gazzetta del Mezzogiorno”, che faceva parte di un pool di sei quotidiani per i quali ero corrispondente da Parigi. A Bari sono stati rappresentati i miei testi teatrali, come L’isola della dottoressa Moreau, con Paola Gassman. E a Bari ho partecipato, con Albertazzi, ai dibattiti per la rinascita del Petruzzelli. Sono felice per questo riconoscimento».