Ugo Ronfani, Memoriale delle caverne

21-06-2006

In fuga dai nazisti, nella grotta di una strega

Nella valle era ogni notte la guerra dei contrabbandieri e dei finanzieri. Si parlavano a fucilate, senza capirsi; gli uni parlavano la lingua oscura degli antenati scozzesi, gli altri i dialetti del Sud. Ma allora il mondo era in pace, la valle rimbombava soltanto della cascata dell’orrido di Sant’Anna che faceva da cane da guardia contro i forestieri, si sentivano soltanto alcune detonazioni nelle cave di pietra. Le ragazze andavano a servire sul lago per farsi il corredo, passava soltanto dalla locanda della nonna qualche carrettiere che non aveva paura dei tagliaborse, venivano dal vescovado predicatori infiammati per la quaresima. Di giorno i contrabbandieri stavano chiusi nelle case di pietra o ridiventavano pastori sugli alpeggi; per sentire parlare del prete eretico di Varallo che s’era preso per Cristo bisognava sentire i discorsi degli uomini nella locanda, quando si scaldavano con l’acquavite della nonna, mangiavano castagne arrosto e alla fine cantavano “Addio Lugano bella”. L’Italia –diceva qualche geometra della Catastale– si preparava alla guerra forgiando otto milioni di baionette, ma la faccenda lasciava indifferenti gli abitanti della valle. I ragazzi sapevano che i loro antenati erano stati soldati di ventura, come il maestro spiegava sui banchi di scuola quando la neve copriva le montagne ma tutti, anche i vecchi contrabbandieri, avevano capito che quei soldati si erano fermati nella valle, a mangiare capretti arrosto e a ballare con le ragazze, proprio perché si erano stancati di combattere e morire per il re d’Inghilterra, e preferivano vivere in pace.
Queste cose sono nelle prima pagine del diario di Pietro Forster, la locanda della nonna era l’orecchio giusto per ascoltarle e raccoglierle, il maestro e il parroco ravvivavano le memorie del passato, gli alpigiani portavano in paese piccole storie che altrimenti sarebbero state disperse col vento, i carrettieri di passaggio raccontavano di furti, delitti, amori e altre diavolerie. Sotto i tavoli della locanda o sui banchi di scuola Pietro e Neda stavano ad ascoltare; erano entrambi nell’età dell’innocenza e credevano che tutto il mondo fosse come la loro piccola valle, dove si combatteva la sola guerra del tabacco della luna. Morire, nella piccola valle, era come non tornare più, una notte, dal Limidario; il tempo era quello dei rintocchi dalla campana della chiesa a mezzogiorno e al vespero.
Ma poi, una volta raccolte queste memorie antiche (“ricordi, favole del tempo in cui io e Neda –leggiamo– crescevamo liberi e selvatici nella valle, senza genitori, sotto la protezione dei giganti del Limidario; era come raccogliere funghi, castagne e mirtilli”) il diario mette da parte il tono fiabesco. Perché scoppia la guerra, s’avventa come un lupo anche nella valle, entra come un vento di tempesta nelle case di pietra. E la nonna, in quei giorni crudeli, diventa una strega.
 
Fra la gente della valle la parola strega incuteva più rispetto che paura. Una strega proteggeva dal malocchio e dai nemici, teneva lontane le malattie dei cristiani e del bestiame. Era come il parafulmine sul campanile, una strega; un male che scacciava altre forme del male. Nella valle, insomma, si diceva strega come si diceva sindaco, veterinario, levatrice, postino o prete. Se la nonna rimescolava nelle pentole minestre e erbe segrete, come un’anima nel fuoco dell’inferno, io e Neda sentivamo di essere protetti da lei. Orgogliosi e contenti perché versava la grappa del coraggio nei bicchieri dei contrabbandieri, perché era chiamata nelle case dei malati prima del prete, perché i carrettieri di passaggio, dopo avere mangiato e bevuto, le facevano i complimenti come fosse una ragazza.
Ma con la guerra le cose cambiarono. Portò molta confusione, la guerra, nella valle e nel mondo. Rancori, odi e spavento, anime in subbuglio. Fame: le donne scendevano verso il lago con la corriera a cercare riso e lardo, che cambiavano con le sigarette di contrabbando degli uomini. A scuola il maestro piantava bandierine sulla carta geografica delle nevi della Russia e dei deserti dell’Africa. Le ragazze a servizio in città dicevano di urla di sirene che le svegliavano per i bombardamenti, e di notti trascorse nelle cantine. Nella locanda arrivavano forestieri, anche donne e bambini; mangiavano la minestra della nonna, dormivano nelle stanze di ghiaccio davanti al Limidario, poi partivano con le loro valigie insieme ai contrabbandieri.
 
Di quella guerra, la seconda nel mondo (ma prima di diventare vecchio gli sarebbe toccato di assistere, come noi tutti, a una terza guerra mondiale, e nel frattempo si sarebbero combattute una quantità di altre guerre lontane che, nel paese dov’era diventato un altro uomo, la Svizzera, gli erano parse del tutto irreali) il diario di Pietro Forster non poteva registrare che i ricordi di un fanciullo cresciuto in una valle in capo al mondo. Gli sfuggivano, ovviamente, molte delle ragioni e delle follie di quella guerra che mandavano a morire milioni di uomini fra la neve, nei deserti, negli abissi del mare, nei lager. Ma si era accorto che, anche lontana, la guerra cambiava la vita della gente nella valle.
Che non era più libero di andare con Neda nei boschi della montagna, come se la guerra fosse un lupo nascosto, cento lupi. Che nella locanda della nonna strega avvenivano cose dalle quali loro due erano esclusi: come nascondere armi piovute dal cielo con i paracadute, o sentire alla radio notizie che bisognava ripetere sottovoce. I finanzieri non si azzardavano più a venire a bere nella locanda davanti alla nonna silenziosa, gli uomini sparivano sul Limidario, le donne facevano lavori di uomini fin sui pascoli più lontani, si rubavano uova nei pollai e verdure negli orti perché i bambini avevano fame, si vedevano girare soldati con le divise a brandelli, il parroco faceva novene per la pace.
Ma un giorno, anzi una brutta notte d’inverno la valle fu scossa da una tremenda esplosione, l’indomani si seppe che avevano fatto saltare con la dinamite il ponte sull’orrido di Sant’Anna. Quella notte la guerra era entrata nella valle, Pietro e Neda capirono che un branco di lupi s’era avventato nella gola dell’orrido. Nel diario il ricordo di quella notte è nitido.