’eterno interrogativo sul “Che fare?” , di Luciano Foresta
L’intervista di Giancarlo Greco, rappresentante di una generazione venuta “dopo”, si dipana, per mezzo della memoria di Valentino Parlato, in una Storia scritta “prima”. Un protagonista di una vicenda importante, quella de “il manifesto”, ripercorre quarant’anni della recente Storia di parte della sinistra Italiana mettendo a nudo intuizioni e limiti di un travaglio politico che, anche se su uno scenario ben diverso, ancora si pone in forme più drammatiche alla sinistra italiana ed europea.
“Il manifesto”, gruppo di intellettuali comunisti, “radiati” e non “espulsi” dal P.C.I., che nel 1969 danno vita alla rivista e poi al quotidiano omonimo, che tentano alleanze con parte di quella che si chiamava “sinistra extraparlamentare” per dare una nuova “forma partito” al socialismo. “Radiati” perché eretici. Eretici perché alternativi al “socialismo reale”. Intellettuali “organici” non conformi alla linea interventista in Ungheria del ‘56, nettamente schierati contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia del ‘68, che attraverso l’analisi sociale e del Movimento Operaio rifiorente in quegli anni, perseguirono il rinnovamento a sinistra per adeguarla alle trasformazioni sociali sopraggiunte. “Aprire una ferita feconda” a sinistra per andare a sinistra.
La stessa questione di oggi: rifondare la sinistra a sinistra. O meglio, fermare ed invertire la “deriva” verso il centro avviata dopo il 1989. Grandi intuizioni dettate da lucide analisi che facevano de “il manifesto” gli “intellettuali” della sinistra dei primi anni ‘70. Analisi che tendevano ad allargare lo spazio politico sulla linea di scontro tra la sinistra storica e parlamentare e la nuova sinistra detta extraparlamentare composta da varie sigle a volte non tutte di ispirazione marxista-leninista o solo marxiana, ma anche libertaria, liberal, radicale. Una posizione, quella de “il manifesto”, sempre oscillante tra il movimentismo operaista e la necessità spiccatamente leninista di dar forma al partito, alla rappresentanza, in ossequio al bisogno di sentirsi “avanguardia” della classe operaia. Grande limite quello della sinistra storica non vedere e non accogliere le istanze di rinnovamento poste dai movimenti giovanili e di protesta tra il ‘68 ed il ‘77.
Gli “intellettuali” de “il manifesto” intuirono questa necessità ma, a mio parere, non la portarono alle estreme conseguenze. Focalizzarono la fase matura del capitalismo italiano, si convinsero che “…il Partito dovesse interpretare le spinte che venivano dall’esterno (operai e studenti soprattutto) e avviare una fase di profondo cambiamento” invece di avanzare “…le prime esplicite ambizioni di governo.”, ma pensarono, da attenti militanti riformatori del Partito, che i Movimenti e le istanze sociali, civili ed esistenziali che rappresentavano dovessero essere ricondotte all’interno della forma partito, non cogliendo che i Movimenti portavano nelle piazze nuovi disagi allo stato nascente quali il precariato giovanile, i diritti civili ed individuali, la democrazia, il diritto allo studio e la liberazione delle donne, sessuale e delle minoranze. “Non sono mai stato un sessantottino, non ho mai portato l’eschimo e non sono mai stato infatuato della libertà sessuale di quegli anni; non pensavo che si stesse facendo la rivoluzione, ma era un grande momento di trasformazione del paese che andava colto… - dice Valentino Parlato - ed il PCI era inadeguato e distante”. I Movimenti degli anni 68/77 offrivano in un crogiuolo infuocato e contraddittorio i temi su cui fondare una moderna sinistra occidentale ed europea temi che destavano solo un’attenzione fenomenica e non sostanziale. Fu certamente un’occasione sprecata perché comodamente bollata o “criminalizzata”. Riferendosi al Movimento del ‘77 dice ancora Valentino Parlato: “Nonostante la posizione critica del nostro giornale verso i teatrini della politica… Io stesso fui diffidente e pessimista circa quei giovani che riempivano le piazze e le strade, e pur considerandoli prodotto naturale della nostra storia precedente, li definì, in uno dei miei articoli, dei “vuoti a perdere”.
Lo sforzo della sinistra intellettuale “radiata” dal PCI e aperta a cogliere i “segni dei tempi”, così come ci si esprimeva in campo ecclesiastico in quegli anni, impegnata ad analizzare il “capitalismo maturo” non poteva arrivare a comprendere i segni della “società post-industriale” che si affacciava con tutte le sue contraddizioni che oggi cominciano a produrre i loro effetti.