SonnET, di Andrea Cortellessa
C’è un componimento, in Esercizi di tiptologia, che – in misura del valore a posteriori sempre più decisivo di questa raccolta, la terza dell’autore, pubblicata nel ’92 – s’accampa ormai quale nuovo testo-insegna di Valerio Magrelli. Se suo primo emblema – ai tempi del folgorante suo esordio – era quello che fiero attaccava «Io abito il mio cervello / come un tranquillo possidente le sue terre», ora che agli Esercizi si sono succeduti una serie di «libri ornitorinco» – come il musicista Carlo Boccadoro definì quello del ’92: libri cioè segmentati, ibridi, “mostruosi” quanto la superficie di Ora serrata retinæ, di contro, appariva compatta, smaltata, uniforme; libri-Frankenstein come quello proprio alla musica dedicato da Magrelli nel 2010, Il violino di Frankenstein appunto; libri-congerie come, in ciò addirittura estremistico, si presenta l’ultimo Il sangue amaro – la sua nuova sphragis non si può che indicare nel Vaso infranto. Si tratta di una poesia di Sully Prudhomme, elegante artefice parnassiano oggi semidimenticato (e si ometterebbe il semi-, se non si fosse soliti ricordarlo quale primissimo Nobel per la letteratura, nel 1901 scelto dai come si vede sin dal principio spiritosi svedesi in luogo di Zola e Tolstoj…) nella quale si descrive un vaso di verbene che è bastato il profilo d’un ventaglio (chissà se allusivo a quelli, dal ciglio taglientissimo, del «distruttore» Mallarmé…) a segretamente incrinare. Appare «intatto allo sguardo del mondo», ma una crepa invisibile lo percorre: «non lo devi più toccare». Negli Esercizi Magrelli ne presenta due diverse versioni collocandole a fronte, nell’impaginato, come se la prima fosse un “deutero-originale” e la seconda una sua “ri-traduzione”. La prima è in altrettanto parnassiani endecasillabi, “fedeli” all’originale, la seconda in franti versi liberi che, nelle ultime due strofe, giungono invece a “scomporlo” prima sintatticamente, poi sbriciolandone i singoli lessemi: «In atto al mon / Crescere in silenzio, il p an / La fer a fine e profon / Ma è inf, n n dev». Il vaso infranto, e peritosamente restaurato dall’atto traduttorio “conservativo” (il dittico è incluso in una sezione tutta dedicata al tradurre, sintomaticamente intitolata L’imballatore), viene invece in seconda battuta “toccato”, eccome, dalla re-visione d’un restauro “interpretativo” dall’esito letteralmente analitico: fissionale.
Da subito l’episodio deve aver rivestito un valore-chiave, per lo stesso autore: se a lui si deve la scelta di intitolare proprio Le vase brisé, per esempio, una propria antologia di versi tradotti in francese da Francis Catalano, pubblicata in Canada nel 2000: nella quale non si retro-traduce (come sarebbe stato invece interessante) Il vaso infranto ma in compenso c’è in esergo l’originale di Prudhomme. Nella conversazione col traduttore che conclude quel libro, Magrelli fa cenno alla “seconda” versione del Vaso infranto, che considera altrettanto fedele della prima, ancorché realizzata in forma di «calligramma»: col quale a venire tradotto, del senso originale, anziché la lettera è il «disegno». In realtà le due forme del testo, aggiunge Magrelli, non possono essere concepite l’una indipendentemente dall’altra. Ed è proprio questa, mi pare, la dimensione che meglio connota la sua “seconda maniera”, quella iniziata appunto con gli Esercizi (raccolta in cui, a differenza delle precedenti, abbondano le traduzioni, appunto; e le ekphrasis artistiche; e, germe d’una clamorosa “muta” a venire – quella iniziata un decennio dopo con Nel condominio di carne –, soprattutto le prose). Se con l’esordio, giunto nel 1980 a quello che appariva il culmine, ma era in verità la conclusione, d’un lungo ciclo di “disordine” (politico non meno che estetico), la sua poesia dava l’impressione di voler ri-comporre il vaso infranto della tradizione lirica, il “nuovo” Magrelli assume su di sé, ed espone a giorno, la dialettica fra infrazione e ricomposizione del postmodernismo (del quale si può considerare il primo, consapevole interprete nella nostra poesia) che abitava in realtà sin dall’inizio, come una crepa invisibile appunto, la sua ispirazione. Un vaso che di continuo s’infrange e di continuo viene restaurato. Che, se non si rompesse, non consentirebbe l’opera accurata, pietosa, commossa: di chi restaura. Ma che, se non venisse ogni volta restaurato, non consentirebbe quella spazientita, atrabiliare, furente: di chi infrange.
Il singolarissimo libretto ora pubblicato dal sempre attento Piero Manni provvede a ri-annodare fra loro i campi metaforici, e i fili noètici, appunto della prosa, della traduzione e del restauro (che si ricollega, altresì, alla mitobiografia della vocazione poetica soggiunta in un’adolescenziale lungodegenza post-traumatica, dopo un incidente in moto nel ’75; e alla successiva tematica del «corpo rettificato» cioè, potemmo dire, “restaurato”: si veda la bella analisi di Elena Cappellini nel suo Corpi in frammenti, Le Lettere 2013). Con la a lui ormai consueta tecnica del testo-congerie, disinvolta talora sino alla sprezzatura, Magrelli cuce nello stesso organismo tre membri testuali, in apparenza, l’uno all’altro estranei: una suite di dodici cartoline in prosa da Londra, che prosegue la serie dei “viaggetti” inaugurata appunto da Esercizi di tiptologia (e anticipata sulla bella rivista «Il Reportage»); un dialoghetto “operettistico” fra la sua controfigura, «Il tenerissimo», e uno sprezzante «Machiavelli» che funge, per dirla con J.G. Ballard, da «demoralizzatore totale» (figure già in scena, nel 2011, nel pamphlet Il Sessantotto realizzato da Mediaset: è questa la «polemica» del sottotitolo); e soprattutto una suite già di suo ben “congesta” e in precedenza apparsa, in questo stesso ’14, in un vezzoso volumetto dell’Istituto italiano di cultura di Londra, curato dalla sua direttrice Caterina Cardona, A Sentimental History of a Restoration: qui figurano otto sonetti scritti da Magrelli in inglese (e accompagnati da quella che lui definisce una «semplice versione di servizio» in italiano); un nono sonetto, un Lamento del traduttore in qualche modo ai suoi responsivo, scritto dal suo traduttore inglese Adam Elgar, cui segue una versione in endecasillabi italiani approntata ovviamente dallo stesso Magrelli; e cinque e-mail a lui indirizzate da sua sorella Simona, restauratrice di professione (che si aggiunge così al catalogo di presenze famigliari, una volta accuratamente forcluse dallo spazio testuale, clamorosamente messo in scena con Geologia di un padre), e dallo storico dell’arte Giovanni Villa. Occasione comune ai tre segmenti – come a questo punto è facile indurre –, un periodo passato da Magrelli a Londra, nel 2013, ospite dell’Istituto.
Londra, «città di città» e Cosmopolis della globalizzazione, è capitale anzitutto multietnica e plurilingue (non a caso vi compare a Belgrave l’Istituto italiano, ovviamente; ma anche, a Pimlico, una «piccola Parigi»: enclaves culturali in cui, concretamente, si sente parlare altre lingue); davvero un «melograno di lingue», come diceva dell’Europa Andrea Zanzotto; o, diciamo, un pudding idiomatico. A Londra il poeta visita musei, ascolta concerti, segue conferenze. Le “cartoline” snocciolano nomi, riferimenti culturali, «piccoli fatti veri» che da sempre punteggiano l’esistenza d’ogni chierico vagante che si rispetti, «organico» o meno (non si pensa a torto all’autore di Postkarten, se nel corpo del dialoghetto che segue s’incastonano acrostici traboccanti «sangue amaro» per la situazione politica italiana e le «Larghe Offese» che la umiliano, culminanti nell’ormai topico Le ceneri di Mike ovvero appunto Niente funerali di Stato per Sanguineti); ma soprattutto mettono a fuoco due diverse, opposte, condizioni estraniate. Da un lato lo straniamento di non capire neppure le più semplici conversazioni, svolte in una lingua che l’autore non padroneggia («Sembra di stare in un dialogo fra due innamorati di Henry James […]: di che cosa si parla? perché state ridendo?»); dall’altro lo “straniamento di ritorno”, per così dire, di sentirsi apostrofare in italiano da camerieri, e altri addetti a umili mansioni, che con imbarazzante frequenza si rivelano, in realtà, ingegneri e dottori di ricerca: “in fuga”, ahiloro e ahinoi, non solo col proprio cervello.
Proprio il toccare con mano quest’umiliazione collettiva, di là dagli stereotipi della doxa, provoca il rigurgito di «sangue amaro» che fa rimettere mano, all’autore, ai personaggi del Sessantotto realizzato da Mediaset. In una poesia scritta per i 99 anni di Pietro Ingrao (evitando così la cifra tonda, come fece a suo tempo Sanguineti nel dedicare ai 91 dello stesso Ingrao un suo memorabile frammento d’autobiografia intitolato Come si diventa materialisti storici) si legge: «Ciò che un tempo facevano miseria e carestia / oggi è prodotto di / Cleptocrazia, / davanti a cui la lirica / si fa amara, cattiva, / lasciando il campo / all’arida invettiva». Cleptocrazia: l’arido grecismo designa un potere politico in mano ai ladri. O peggio. Se è vero che la ruberia legalizzata riduce gli italiani all’esilio o addirittura al suicidio, l’imputazione che «Machiavelli» nella sua assise infernale ipotizza di muovere ai «gerontocrati» di Stato è addirittura quella di omicidio, se non di tentato genocidio («Nei rifugi, in montagna, verso sera, chi arriva, stanco e affamato, sa bene di non dover terminare le vivande lasciate sul posto da coloro che lo hanno preceduto. Se io le finisco, o peggio, se distruggo il rifugio, depredando in tal modo il bene collettivo, non sarò forse responsabile della morte di chi, arrivando dopo di me, dovrà passare la notte all’addiaccio?»). Nella finzione (?) drammaturgica, però, Magrelli sostiene che le frasi contenenti parole come «omicidio» gli sarebbero state «censurate, in via precauzionale», da due «amici penalisti». Così che il dialoghetto infernale risulta costellato d’una gragnuola di omissis, cancellature che – nel furore della polemica – lasciano indisturbate, in certe frasi, appena una parola o due: scotomizzazioni fitte come in un’edizione di frammenti poetici o filosofici arcaici trascritte con attitudine “conservativa” (viene in mente un piccolo libro miracoloso di Gian Piero Bona, pubblicato da Scheiwiller nel 1999, Le muse incollate: dove i «cocci» dei lirici greci, viceversa, erano “restaurati” in modo “interpretativo”, e quanto mai tendenzioso: farcendo le loro lacune con versi propri – segnalati da diverso carattere…). Logica a questo punto la dedica al grande Emilio Isgrò e alle sue (non meno sarcastiche, non meno accorate, non meno paradossalmente moralistiche) «cancellature» (e l’artista-scrittore siciliano risponde da par suo, realizzando sua sponte la bellissima copertina del libro).
Ed ecco allora l’ultimo link, la più callida delle iuncturæ: quella che ci porta all’highlight che dà il titolo al libro, la corona di sonetti dedicati appunto al restauro di due dipinti sei-settecenteschi conservati all’Istituto di Belgrave e raffiguranti, rispettivamente, un Apollo e un Virgilio. In un poeta sempre concettuale come Magrelli, non può sorprendere la natura fortemente metalinguistica di questi componimenti. Il terzo evoca la celebre Teoria del restauro di Cesare Brandi (la quale contrappone appunto la conservazione – che non dissimula le macchie e appunto le lacune dovute al passare del tempo – all’interpretazione), ma porta in scena pure la sorella Simona (co-protagonista dei dialoghi elettroepistolari che alle poesie fanno da puntuale razo) e le sue pratiche che, si viene così a sapere, hanno abitato l’adolescenza del poeta: «Quanti quadri giravano per casa, / mentre vedevo mia sorella armata / di lime, lame, attack, carta vetrata / fare vuoto, teoria, tabula rasa! / […] E il gesto zen / di mia sorella dischiudeva il nulla nella lacuna spalancata sulla / tela, tra gesso, daino, colla e gel. // Ma chi restaurerà tutti quegli anni? / Meglio sempre le immagini, Giovanni?» (allo storico dell’arte – dal nome di battesimo così squisitamente italiano – ci si rivolge nelle clausole dei primi quattro sonetti, facendolo rimare rispettivamente con money, funny, so many e honey; negli altri lo stesso effetto è replicato col nome della sorella, «Io salvo immagini, Simona»: rimato o assonanzato con dishonour, trauma, red-headed one e owner). Dove si vede intanto come l’adozione di una forma chiusa, da parte di chi agli esordi levigava il più musicale verso libero possibile, abbia un significato metapoetico, oltre che metalinguistico (nel medesimo componimento sono evocati, mi pare, il Frasca di Lime e, col gel di Fosfeni, lo Zanzotto dell’Ipersonetto); il sesto sonetto invoca addirittura La salvezza attraverso la forma: «E allora, perché sonetti? Perché sarei felice / di costruire una forma, uno stampo, contro la polvere. / Per questo ho scelto questo scheletro di versi: / Infatti penso che una tale struttura salvi / la nostra debole voce, il nostro sussurro, e sfidi / Il Tempo demolitore e tutti i suoi rovesci» (poetica che ricorda quella di un autore col quale il “primo” Magrelli non era certo in sintonia, il Raboni di Ogni terzo pensiero e Quare tristis: e chissà che il «Giovanni» cui si rivolgono diversi dei sonetti in clausola, oltre che lo storico dell’arte citato in abbrivo, non evochi proprio lui).
Il penultimo verso del terzo sonetto, poc’anzi citato, denota peraltro quanto poco «di servizio» siano le auto-traduzioni italiane, metricamente regolarissime, dei sonetti “originali” (per parte loro altrettanto regolarmente elisabettiani, e che Magrelli ha confezionato con la consulenza del poeta inglese Jamie McKendrick): la sequenza di bisillabi giambici “mima” in italiano la metrica inglese. E fa venire in mente una delle primissime prove di forma chiusa da parte di Magrelli, il virtuosistico Ecce Video compreso nella sezione Altre poesie di Poesie (1980-1992) e altre poesie (Einaudi 1996), al cui pure penultimo verso esplode una raffica di monosillabi appunto inglesi: «(goal, quiz, clip, news, spot, film, blob, flash, scoop, E.T.)». Episodio, questo, che si può ben indicare quale primo germe dell’ossessione sottile che ci ha condotti sino a qui. Un po’ come in Zanzotto (che si esercitò a sua volta, nei primi anni Ottanta, in «pseudo-haiku» scritti in questa lingua: li si legge per il momento solo in un’edizione d’oltreoceano, Haiku for a season, a cura di Anna Secco e Patrick Barron, The University of Chicago Press 2012: rinvio a http://www.leparoleelecose.it/?p=16424), la condizione straniata di chi – pure plurilingue e callido traduttore (curatore a suo tempo per Einaudi della «serie trilingue» della benemerita e dunque chiusa collana «Scrittori tradotti da scrittori»; qualche collega invidioso, ricordo celiare malevolo, su Magrelli come “il poeta che sa le lingue”) – non mastica, fra tutte, proprio la lingua-mondo che sempre più ci invade e ci avvolge (con la sua «diffusione tendenzialmente panterrestre», come dice Zanzotto nella Nota a Filò, 1976), gli ha dettato un uso appunto “alienato”, più che straniato, dell’inglese. Per riprendere la clausola di Ecce Video, questo di Magrelli – al netto dell’ortopedia metrica – è un inglese stentato, gracchiante, appunto da E.T. (e la frase-tormentone del blockbuster spielberghiano, «E.T. telefono casa», viene chissà quanto intenzionalmente parodiata quando Magrelli si rappresenta, esasperato, mentre telefona appunto a casa, da Londra, le sue espettorazioni “machiavelliche”: «mia moglie, per telefono, mi dà del demagogo. Sarà»).
È un risentimento diciamo neocoloniale, ad associare la rabbia per l’emigrazione forzata dei propri connazionali (non senza un pensiero al pionieristico Pascoli di Italy) a quella nei confronti dell’arroganza universalistica d’una lingua che si fa ovvio veicolo di sistemi valoriali, retoriche stucchevoli, implicite quanto solide ideologie: proprio come quello del mostro calibanoide, toujours été race inférieure, che prende la parola nella seconda prosa di Une saison en enfer, Mauvais sang (ipotesto-chiave questo di Rimbaud, in termini umorali, del Sangue amaro di questo “secondo” Magrelli). Quando vengono snocciolati i nomignoli dispregiativi coi quali si appellavano gli emigrati italiani, si scopre che sono tutti termini brevi, secchi e, soprattutto, in inglese: «Greaser, Ginzo, Greaseball, / Dago, Dego, Guido, Guinea o Wop, / quest’ultimo probabilmente la crème della crème» (finissimo il vendicativo inserimento, nell’inglese dei sonetti, di una quantità di espressioni-enclave in francese come, nel primo, Beaux Arts e tromp l’oeil: a riequilibrare gli anglismi resistenti nelle versioni italiane come, nel medesimo componimento, WeTransfer e Powerpoint…). Uno di questi, dego, evoca una vera e propria querelle etimologica: per i più deriverebbe da dagger, “pugnale”; invece per Luciano Cecchinel (poeta in dialetto, sodale di Zanzotto, che ha cantato appunto l’epopea dell’emigrazione) avrebbe un’origine a sua volta “metalinguistica”: «quanto al dispregiativo ‘dago/dego’, mio nonno e mio zio cercavano di bonificarlo indicandone la derivazione in ‘mi dighe’, versione dialettale dell’italiano ‘io dico’, quale intercalare ai fini di farsi intendere, come per l’inglese ‘I mean’». Ma fra tutti il più curioso, di questi epiteti appioppati ai miserabili italiani ospitati, risuona nel titolo dell’ultimo sonetto scritto, da Magrelli, nella lingua dei pelosi ospiti anglofoni: «Am I an Eyti?». Eyti (o Eytic, Eyeti e Eyetie) abbreviava Italian, pronunciato (intenzionalmente) male come «aitalian». Pronuncia alienata e anzi a tutti gli effetti aliena: pronuncia appunto degna di E.T. Ma che contiene in sé il tie, il nodo della lingua di dantesca memoria; e soprattutto l’eye: l’occhio, per il nostro poeta, sin dall’inizio strumento araldico. Quell’occhio che da sempre, per lui, coincide con l’io. Doveva arrivare a Londra, Magrelli, per scoprire che è l’inglese, proprio, la lingua in cui Eye, appunto, si dice come I.